Slideshow. Cristina Meschia

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Slideshow. Cristina Meschia


Jazz Convention: Così, a bruciapelo chi è Cristina Meschia?


Cristina Meschia: Sui social mi definisco così: cantante nomade. Sperimentatrice di suoni, immagini, parole e colori. Sono una persona molto curiosa e questo mi stimola a conoscere le innumerevoli espressioni musicali e quando è possibile ad intrecciare le varie forme d’arte…



JC: Ci parli subito del tuo album Intra?


CM: Intra è nato come un bellissimo gioco, dopo un pranzo impegnativo ed una bottiglia di vino rosso: Riccardo Zegna (pianista e arrangiatore del lavoro) ed io decidiamo di buttarci in questo progetto atipico. Un giorno di ritorno a Verbania cerco di trovare più canti popolari possibili, un po’ ovunque: in biblioteca, in un paio di librerie del luogo. Recupero un brano in una casa di riposo da un volontario del centro che ogni mercoledì canta vecchi brani popolari con la sua bella fisarmonica, accedo ad un altro brano, per caso, all’interno di uno storico museo del luogo, recupero vinili, giornali d’epoca e fotografie. Insieme a Riccardo scegliamo i pezzi, le tonalità, gli strumenti da utilizzare, cerchiamo un sound. Riccardo scrive pagine e pagine di arrangiamenti, instancabile e fedele alleato. Finite tutte le registrazioni inizio a cercare e contattare tutte le persone che in qualche modo sono legate ai brani: conosco persone fantastiche, piene di vita e di ricordi. Ricordi che con la musica non muoiono mai, rimangono in vita.



JC: Come definiresti dunque un lavoro come Intra?


CM: Questo disco è il prodotto di ciò che sono. Proprio come la città di Intra nasce tra i fiumi San Bernardino e San Giovanni, questo disco, nasce tra me e un sacco di cose: tra me e Riccardo Zegna, tra la musica popolare e popolaresca e il jazz, tra l’italiano e il dialetto, tra me e i numerosi ospiti che hanno partecipato, mettendo ognuno un po’ di sé. Lo descriverei quindi come un lavoro di squadra, dove ognuno ha il proprio spazio creativo e non c’è fretta di respirare. La mia voce è al servizio della musica, dei testi e di questo mondo che ci appare forse lontano, ma che a tratti, sembra riprendere a vivere in questa nostra rilettura attuale, che si fonda con le radici e i puntelli nella tradizione.



JC: E l’ardua scelta di abbinare il jazz al vernacolo (e viceversa)?


CM: Credo che le canzoni popolari e il dialetto, raccontino molto delle abitudini dei nostri antenati, a volte riescono a raccontarle come nessun altro documento riesce a fare perché tocca la vita di tutti i giorni, le sofferenze, gli amori, le gioie vere, i sentimenti autentici e diretti, forse è proprio di questa sincerità e di questa purezza di cui si sente il bisogno nel 2016.



JC: Ci racconti ora il primo ricordo che hai del jazz?


CM: Il primo ricordo è legato a un vecchio giradischi impolverato ritrovato in cantina con una serie di 45 giri tra cui un disco della magnifica Ella. Fu un’esperienza tattile, olfattiva e uditiva allo stesso tempo, in pieno stile jazz.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare una musicista?


CM: Mi sono accorta che l’unico posto in cui mi sentivo davvero bene era mentre cantavo. La musica è ciò che ha sempre riempito le mie giornate. Non mi ha mai fatto sentire sola e la passione con il tempo si è trasformata in sentimento più profondo, fino a diventare compagna stabile, essenza, priorità: un bellissimo rapporto d’amore. Sono grata alla musica, mi ha sempre dato la forza per tutto, per reagire, per svegliarmi all’alba (o per non dormire proprio), per viaggiare, per trovare sempre un piano B, per re-inventarmi, per cambiare più città, amici, affetti, per i sacrifici in generale.



JC: E in particolare cosa e come ti consideri: jazz-girl, cantante, clarinettista cantautrice o altro ancora?


CM: Non sono una persona di facile collocazione e facilmente definibile, questo disco è il prodotto di ciò che sono. Non ho mai studiato jazz, pertanto non ho la presunzione di considerarmi una jazzista, anche se mi sento a mio agio in questo mondo musicale e con questo tipo di linguaggio. Ho scritto canzoni mie anche collaborando con diversi musicisti, ultimo lavoro ancora inedito con Dario Fornara (chitarrista fingerstyle), ma ho ancora tanta strada da fare ancora prima di considerarmi cantautrice. Il clarinetto è stato un incontro di passaggio che mi piacerebbe approfondire. Credo che in questa epoca siano tutti artisti, jazzisti, cantati, fotografi, pittori, musicisti, cantautori. Preferisco quindi che siano gli altri a considerarmi in qualche modo.



JC: Cos’è per te il jazz?


CM: Il jazz è l’adesso, il momento presente, il qui e ora. Il jazz per me è un tipo di espressione musicale dove una persona può davvero essere personale e autentica. Perché essere personali è la cosa più importante, com’è importante la conoscenza, la curiosità e la passione per la musica, una delle più belle debolezze. Il jazz è collaborazione, scambio tra i musicisti, ascolto. È rosso, rosso come il fuoco.



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica?


CM: La musica è l’essenza di tutto ciò che esiste. È passione, determinazione, disciplina, è sapere ascoltare, è un linguaggio magico dei sentimenti.



JC: Tra i brani che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionata?


CM: Tra i brani contenuti in Intra sicuramente “Fioca”. Il testo del brano è tratto da una poesia di Armando Tami (poeta e benefattore ossolano), l’arrangiamento originale era stato scritto per coro. Nell’album è stato arrangiato e proposto in una versione molto introspettiva ed elegante, utilizzando balalaica, contrabbasso, piano, sax e batteria. Sono molto affezionata a Fioca perché è stato il primo pezzo a essere inciso ed è stato pensato direttamente in studio, raccogliendo le idee di tutti i musicisti. Ognuno ha messo il proprio bagaglio culturale e personale al servizio della musica con grande voglia di creare insieme. Non turnisti o freddi esecutori di jazz, non era questo il mio intento e spero si senta.



JC: E tra i dischi jazz che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?


CM: Porterei due dischi in particolare: anzitutto Porgy and Bess opera musicata da George Gershwin, per il libretto di DuBose Heyward, e testi di Ira Gershwin e Heyward. Oltre essere capolavoro è stato fonte di studio ed è legato ad un piacevole ricordo, poiché ho fatto parte di un progetto dedicato a Gershwin chiamato “Gershwin Melody String Ensamble”(in totale più di una ventina tra strumentisti e cantanti); e poi Carmen Sings Monk ovviamente della cantante Carmen McRae che interpreta i brani del pianista Thelonius Monk



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?


CM: Nella vita sono i miei genitori che mi hanno insegnato ad essere sempre umile e combattiva. Nella musica (che è poi la vita stessa), potrei fare molti nomi di maestri che hanno accompagnato il mio percorso per mano in varie fasi, ma sento di farne uno solo che è un punto fisso per me da tempo: il pianista Riccardo Zegna. Nella cultura i miei maestri migliori sono stati per me i viaggi, i treni persi e i treni presi, gli incontri e le letture di Pier Paolo Pasolini.



JC: E i clarinettisti che ti hanno maggiormente influenzato?
Tony Scott è il primo a cui penso. In lui convivevano tanto la consapevolezza di essere un grande musicista, quanto l’umiltà nell’accettare qualsiasi proposta di lavoro per continuare ad essere ciò che era, un libero musicista dall’anima jazz.



JC: Come vedi la situazione della musica in Italia?


CM: Per la maggior parte dei musicisti – emergenti e non – lontani dai riflettori e dalla popolarità, è molto complicato vivere solo di musica, nonostante i molti sacrifici e un’alta professionalità, nonostante le notti in bianco, i chilometri percorsi avanti e indietro lungo la penisola. Sospesi tra incertezza e precarietà, i musicisti oggi, in Italia, non se la passano bene, tra poche tutele e con il miraggio della pensione. Il doppio lavoro è una necessità per molti, se non per tutti, almeno per i primi anni. Il quadro è abbastanza desolante, ma l’amore per questo mestiere, perché di amore si tratta, supera qualsiasi ostacolo e alla fine, al di là delle tutele, degli sponsor e dei soldi, è anche l’unica cosa che conta.



JC: E più in generale della cultura nel mondo e in Italia?


CM: Di cultura ne vedo ben poca, almeno in Italia. Ne vedo poca soprattutto da parte di chi si ritiene acculturato, laureato, specializzato. Vedo poco interesse, poca curiosità e nessuna predisposizione all’ascolto. Le orecchie mi sembrano tappate, gli occhi ciechi e i cuori un po’ congelati. In Italia la cultura (come l’arte) non paga, sembrano altre le cose importanti. Spero non sia tutto il mondo paese.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


CM: Sto cercando di portare Intra il più possibile a spasso con live e presentazioni a partire da Torino, Roma, Savona. Mi piacerebbe fare una tappa per regione, in particolare vorrei avere un confronto e uno scambio al centro e al sud Italia.