I mille incontri musicali di Roberto Negro

Foto: Laurent Lelong dal sito di Roberto Negro










I mille incontri musicali di Roberto Negro

Non molti conoscono Roberto Negro, un pianista italiano residente a Parigi. In Francia il giovane musicista ha saputo introdursi nel giro giusto, riuscendo a collaborare con personaggi di qualità e spessore, aperti verso le nuove prospettive del jazz contemporaneo. Nell’intervista che segue Negro ci racconta la sua vita artistica, la sua attività attuale e i suoi progetti per il futuro.



Jazz Convention: La prima domanda è la più scontata: perché hai deciso di risiedere in Francia?


Roberto Negro: Il fatto è che non ho proprio deciso io. Sono cresciuto a Kinshasa, Zaïre, dove ho trascorso i primi quattordici anni della mia vita. Lì ho frequentato la scuola francese fin dall’asilo. Perciò giunto alle medie, i miei genitori decisero di farmi proseguire in paesi francofoni. Cosi giunsi prima a Ginevra poi a Grenoble all’età di diciotto anni. Sempre vicini alla frontiera italiana. Diplomatomi al conservatorio ho poi scelto Parigi, terra dei mille incontri.



JC: È stato difficile entrare nel giro giusto di un jazz contemporaneo, di ricerca, accanto a musicisti importanti come il sassofonista Christophe Monniot o lo stesso Theo Ceccaldi, valente violinista?


RN: Quando incontri persone che evolvono nel tuo stesso campo e gusto tutto si rivela essere molto fluido e semplice. Così è stato con Monniot. Nel 2006 è stato scelto per dirigere l’orchestra del Rhône-Alpes, con giovani musicisti appena usciti dai conservatori della regione. Così sono entrato a far parte dell’orchestre del JPOA e qualche anno dopo fui io ad invitarlo nel mio trio. Nacque il quartetto Kimono. Christophe è secondo me una perla rara nel panorama jazzistico mondiale. Con Théo siamo praticamente coetanei, siamo entrambi membri fondatori del Tricollectif, siamo cresciuti insieme negli ultimi anni e suoniamo in miriadi di progetti insieme, l’affinità musicale tra noi due è molto forte.



JC: Vuoi parlarci del Tricollectif? Come è nato, come organizzate la vostra musica in particolare come vi regolate rispetto al rapporto fra improvvisazione e composizione?


RN: Il Tricollectif è nato nel 2009, per iniziativa di amici residenti ad Orléans di lunga data, con dentro due “parigini” che siamo io e il chitarrista Guillaume Aknine. Sono invece di Orléans i fratelli Théo e Valentin Ceccaldi, i sassofonisti Quentin Biardeau e Gabriel Lemaire, i batteristi e percussionisti Adrien Chennebault e Florian Satche, il film maker Jean-Pascal Retel che si occupa anche del sito web e organizza la comunicazione con l’autore e attore Robin Mercier. Purtroppo niente donne… Ognuno fa parte di numerose bande e conduce più progetti, quindi non c’è un modo unico di organizzare la musica, dipende da chi la fa. Il Tricollectif non ha una direzione estetica ben precisa, un dogma. Diciamo che c’è spesso un rapporto molto stretto con la forma, senz’altro ereditato più dalla cultura musicale europea classico contemporanea o da una certa pop colta. Detto questo i progetti del Tricollectif vanno dal Machaut di Biardeau (rilettura della messa e altri lavori di Guillaume de Machaut), al camerismo contemporaneo de La Scala, passando per forme orchestrali come il Tribute a Lucienne Boyer, cantante francese degli anni venti. Il rapporto tra scrittura e improvvisazione è spesso molto intrecciato, cercando di cancellare nell’ascoltatore la sensazione di cosa è scritto e cosa è improvvisato, anche perchè improvvisare è scrivere, comporre in tempo reale.



JC: Con quali formazioni collabori attualmente in Francia oltre al Tricollectif?


RN: Intanto ci sono formazioni che conduco e che non fanno parte del Tricollectif, come il mio nuovo trio Dadada con Emile Parisien e Michele Rabbia, cui disco uscirà sul mitico Label Bleu nel 2017. Peraltro collaboro nel quartetto di David Enhco, nel quale invitiamo regolarmente Michel Portal; stanno nascendo cose anche in Italia, come il quartetto di Costanza Alegiani ed il trio con Fabrizio Sferra e Francesco Ponticelli. Nel 2017 condurrò una creazione con musicisti africani di Ouagadougou e Kinshasa, richiesta fattami dal festival Africolor.



JC: Secondo me il jazz francese ha una sua connotazione precisa, non è derivativo, cioè, anche per la presenza di grandi personaggi nella sua storia recente, come Martial Solal, Michel Portal o Louis Sclavis che hanno tracciato la strada. Sei d’accordo su questa consapevole originalità del jazz transalpino? È solo merito dei capiscuola?


RN: Su grande scala, secondo me, è un fatto di politica culturale e di cultura politica. Per cultura politica, la Francia è protezionista (anche se il termine è forse un pò esagerato): si vuole distinguere, soprattutto dalla grande sorella amica-rivale americana, e proteggere le proprie radici, la propria identità, in particolar modo dal mondialismo anglosassone. Nel lavoro svolto dai jazzisti francesi, c’è spesso un legame con la tradizione musicale franco-europea e con la tradizione della ricerca, dell’innovazione sulle forme musicali. Non dimentichiamo peraltro che la Francia è la patria dell’IRCAM, dell’Ensemble Inter-contemporain, istituzioni di ricerca sul suono e sulla composizione musicale che sono mondialmente riconosciute. Questo ci porta al secondo punto, quello della politica culturale : è sempre stata promossa l’innovazione, dagli anni ottanta Jack Lang ha istituito il regime di “intermittence du spectacle” per permettere appunto agli artisti e musicisti di svolgere il loro mestiere con più sicurezza, dove viene versata mensilmente una pensione all’artista che viene quindi riconosciuto come lavoratore d’interesse pubblico, a tempo pieno. E poi lo stato francese ha sempre aiutato finanziariamente la creazione artistica, con programmi istituzionali a livello comunali, regionali e statali che sostengono progetti di creazione contemporanea. Ovviamente oggi è tutto più difficile e la cultura è in pericolo anche in Francia.



JC: Anche se lavori prevalentemente in Francia non mancano le tue collaborazioni con artisti italiani, come ad esempio Costanza Alegiani. Vuoi parlarci del suo ultimo quartetto con cui ti sei esibito a Roma?


RN: È ancora un neonato, anche perchè essendo io a Parigi non abbiamo modo di vederci spessissimo. Il quartetto è costituito da Costanza, Matteo Bortone, Federico Scettri ed il sottoscritto. Diciamo che la ricerca artistica di Costanza e la mia hanno molti punti in comune: il rapporto con la poesia, i ponti creati tra improvvisazione, jazz e musica euro-colta. E, poi, il nostro gusto per la grande varietà italiana! Ci mandiamo spesso video dei grandi successi di Sanremo… Forse per tutto ciò si è legata una palla al piede chiamando un pianista parigino nel suo nuovo progetto.



JC: Cosa ci puoi dire, inoltre, del trio messo insieme da poco con il sassofonista Emile Parisien e con Michele Rabbia?


RN: Emile e Michele sono due UFO nel panorama jazzistico internazionale. C’è tanta, tantissima musica in loro. Ci accomuna, credo in particolar modo, lirismo e apertura a 360°. Con Emile, suoniamo insieme da quando abbiamo deciso di adattare il primo quartetto d’archi di Ligeti. Quando poi mi chiamò Label Bleu per fare un disco, mi è subito venuto in mente Michele, la sua raffinatezza, le sue folgorazioni anche, e la voglia di un trio piano, batteria, sassofono con l’aggiunta di elettronica. Abbiamo fatto per ora un concerto a Roma e a Cormons. La nascita ufficiale in Francia avrà luogo a gennaio con concerti a Paris, Strasbourg, Nantes e la registrazione del disco ad Amiens. Non vedo l’ora!



JC: Cogli una differenza fra il jazz italiano e quello francese, rispetto ai musicisti e riguardo al pubblico?


RN: Questa la passo perchè, a dire il vero, ho suonato pochissimo in Italia. Per ora…



JC: Hai un modo di suonare espressivo, pieno. Sai contenere la tua “esuberanza” se così si può definire, ma quando hai spazio lo occupi, non risparmiando le note, se mi passi questa maniera di delineare il tuo pianismo. A chi ti ispiri in particolare?


RN: Ma guarda non ho un’icona pianistica in particolare. Forse mi piacciono i musicisti che per fraseggio, vocabolario o come compositori mi sorprendono. Ultimamente ascolto e mi piace molto Charles Yves che compone stratificando la musica, ma con elementi assai identificabili e il risultato è veramente sfizioso, poetico ed evocatore, una nebulosa onirica; mi piace tantissimo Craig Taborn, ha un vocabolario molto esteso ed anche lui sa “dipingere” in musica. Poi la lista sarebbe troppo lunga, fermiamoci qui.



JC: Torniamo un po’ indietro. Come hai iniziato ad interessarti al pianoforte e alla musica afroamericana?


RN: Mia madre mi fece sedere davanti ad un pianoforte all’età di sei anni. Abitavamo in Zaïre (oggi Repubblica Democratica del Congo), a Kinshasa. Sono cresciuto li fino all’età di quattordici anni. Tre professori mi hanno successivamente insegnato le basi della musica classica europea : un congolese diplomato al conservatorio di Kinshasa, un’italiana ex professoressa al conservatorio di Milano, ed infine una concertista russa. Un percorso assai ricco. Ed in mezzo a tutta questa cultura europea sentivo, anche inconsciamente, la musica della strada e delle radio congolesi. E così la musica dell’Africa centrale mi è entrata in pelle da subito. Quella afroamericana arrivò ben più tardi, anche perchè negli anni delle medie e liceo ero molto più attratto dal pop e il rock sinfonico degli anni 70. Sono approdato al jazz afroamericano perchè volevo improvvisare in musica, entrare nel mondo della composizione istantanea, e “jazz” era sinonimo per me di improvvisazione, confusione che viene fatta ancora oggi ovunque, quando invece l’improvvisazione, ovviamente, è indipendente da ogni discorso stilistico.



JC: Quali ritieni siano i grandi del jazz a cui devi di più?


RN: La mia porta d’entrata è stata Michel Petrucciani, pianista dal contenuto melodico estremamente limpido, dalle composizioni subito identificabili nella forma e la melodia. Poi sul fraseggio pianisti come Lennie Tristano o Brad Melhdau sono stati fondamentali. Più tardi anche Benoît Delbecq. Mi sono innamorato anche della poesia di Bill Carrothers e Marc Copland. Questo per quanto riguarda i pianisti. Per il resto monumenti come Henri Threadgil, Paul Motian, Bill Frisell, John Zorn… la lista, anche qui, può diventare molto lunga…



JC: Quali sono i tuoi rapporti con la tradizione jazzistica?


RN: E con quella accademica?


RN: Sono di quelli che pensano che il discorso accademico va conosciuto per poi essere dimenticato. Come anche la tradizione jazzistica. Deve tutto essere cibo da trasformare, nutrirsene per costruire poi una propria forma espressiva.



JC: Pensi di essere catalogabile come un pianista d’avanguardia? Cos’è secondo te l’avanguardia?


RN: Essere all’avanguardia in musica vuol dire per me essere pioniere, scoprire nuove forme, nuovi suoni, nuove miscele. Non mi reputo un pianista d’avanguardia perchè non credo di sviluppare idee inedite. Però ascolto molta musica contemporanea, nel senso “di oggi” e me ne nutro. Cerco di utilizzare elementi della mia cultura, avanguardistici o più tradizionali, identificabili, per costruire una mia espressione personale. E sono molto attento alla forma delle composizioni; un tema o un assolo devono avere un senso all’interno di un quadro, di una forma globale. Scrivo e suono musica come si dipingerebbe un quadro o si racconterebbe una storia. Forse per questo sono stato catalogato più di una volta dai giornalisti francesi come “originale” o “inclassable”.



JC: Quali sono i tuoi progetti futuri?


RN: Ce sono parecchi e molto diversi l’uno dall’altro. Dadada è una priorità. A gennaio esce il mio nuovo disco, Garibaldi Plop, in trio con Valentin Ceccaldi e Sylvain Darrifourcq, ispirato da una foto del primo dopoguerra e da un’avventura partigiana. Ad aprile uscirà il nuovo Kimono, il quartetto per il quale scriviamo Christophe Monniot ed io. Continua ovviamente il duo Danse de salon con Théo, e quello con Emile su Ligeti. Il festival Africolor mi ha proposto di dirigere un progetto per l’autunno 2017 con artisti africani. Probabilmente lavoreremo con un autore congolese e musicisti burkinabesi, sarà l’occasione di tornare in Africa. Il Triton mi invita a fare una residenza, nel 2017 o 2018, è ancora da decidere; scriverò musica per il quartetto Bela, quartetto d’archi, al quale si aggiungerò il sassofono di Emile ed il mio pianoforte. E comincio anche a lavorare sul mio piano solo. Per ora può bastare…