Dedications, il nuovo disco di Tito Mangialajo Rantzer

Foto: la copertina del disco










Dedications, il nuovo disco di Tito Mangialajo Rantzer.


Si chiama Dedications l’ultimo lavoro di un contrabbassista eclettico e versatile, tra i più in vista del panorama jazz italiano. In questo disco interessante e ricco di contenuti, è alla guida di un quartetto composto da Marco Fior alla tromba, Francesco Bianchi ai sassofoni, Massimo Pintori alla batteria e Francesca Ajmar alla voce.



Jazz Convention: Tito, tu sei un contrabbassista, compositore e leader. Parlaci della tua formazione musicale, dei tuoi riferimenti e di come ti vedi oggi.


Tito Mangialajo Rantzer: Mi ritengo essenzialmente un autodidatta, anche se ho studiato un anno con Franco Feruglio (grande didatta) in una scuola di musica di Milano che era un riferimento negli anni ottanta. Poi due anni alla Civica Scuola di Jazz di Milano, appena venticinque anni fa, studiando con Giorgio Azzolini che mi ha impostato benissimo sullo strumento. Ho seguito vari seminari come ad esempio Siena Jazz, poi uno a Genova durante il quale ebbi la fortuna di studiare un pò con Walter Booker, grande bassista di Sonny Rollins e Cannonball Adderley negli anni sessanta. In realtà mi definirei un autodidatta. Ho appreso molte cose ascoltando a ripetizione i dischi che mi piacevano e trascrivendo le linee di basso dei grandi. Ho iniziato ad ascoltare attivamente la musica, credo, a nove-dieci anni. A quell’epoca suonavo la chitarra e impazzivo per i Beatles. A dodici anni, era il 1979, avevo già ascoltato tutti i dischi dei Fab Four e il mio idolo era McCartney. Così decisi di farmi regalare un basso elettrico da mio papà, un basso Eko che costava poco ma faceva il suo lavoro. In quell’anno, ero in seconda media, scoprii i Police e di conseguenza Sting. Poi arrivò Donald “Duck” Dunn coi Blues Brothers e Rino Zurzolo con Pino Daniele (ma anche Alphonso Johnson). Finchè verso i diciotto, grazie sempre a mio papà, mi avvicinai seriamente al jazz. Da lì la scelta di passare al contrabbasso fu per me obbligata. E a vent’anni ne comprai uno e cominciai a studiarlo. Con Feruglio, Azzolini ma soprattutto con Ray Brown, Paul Chambers, Scott La Faro, Percy Heath, Mingus e grazie ai vinili che divoravo letteralmente. I miei riferimenti? Tutti quelli che ho citato fin qui più una caterva di altri grandi. Giusto per citarne alcuni: Neil Young, Peter Gabriel, Monk, Bill Evans, Coltrane, Ornette, Albert Ayler, Ellington, Parker, Miles… vabbè, ce ne sono tantissimi, troppi. Ve li potete immaginare. Calcola che tra vinili, audiocassette e cd avrò a casa circa 4000 album, tutti ascoltati con passione e diligenza. Devo ammettere che da quando il Jazz ha fatto irruzione nella mia vita il Pop e il Rock ne sono progressivamente usciti. In tanti dischi di questo genere, anche di celebratissimi nomi, faccio fatica a trovare l’approccio ritmico che sento nel Jazz e che mi fa muovere, mi fa venire voglia di ballare. Trovo il Rock e il Pop in massima parte un po’ statici sotto questo aspetto e quindi per me poco attraenti. Invece ho ascoltato molta musica “classica” soprattutto del XX secolo e da qualche anno tanta, tantissima musica brasiliana, che adoro e che suono sempre più spesso, sia con mia moglie, la cantante Francesca Ajmar (italiana ma che in realtà non me la racconta giusta, è una brasiliana sotto mentite spoglie) e anche con musicisti brasiliani: un continente musicale strepitoso. Continuo a scoprire grande musica e grandi musicisti. Come mi vedo oggi? Sinceramente non lo so, ma spero che qualcuno mi ascolti.



JC: Dedidactions è il tuo primo disco da leader?


TMR: Sì. Se si esclude Dal basso in alto, un cd in solo uscito due anni fa in cui ero leader di me stesso. Una fatica mettersi d’accordo per le prove…



JC: Per l’occasione hai messo in piedi un tuo quartetto: con quale criterio hai scelto i musicisti? Come è il rapporto tra di voi?


TMR: Innanzitutto volevo suonare in quartetto e senza strumento armonico. La scelta tromba-sax-basso-batteria mi è sembrata la più congeniale. Ok, nulla di originale, ma a me questo suono è sempre piaciuto: dai dischi del quartetto Mulligan-Baker fino ad arrivare a Masada di Zorn passando per Ornette e molti gruppi anni sessanta o settanta. Marco Fior, trombettista, lo conobbi anni fa suonando con lui in un gruppo di Giovanni Falzone. da quel momento pensai che se avessi creato un grupo mio lo avrei coinvolto. Mi piace il suo suono e il suo modo di suonare, magari per alcuni poco appariscente, ma sempre centrato e personale. Marco pensa alla musica, non a stupire. Poi quando è stato il momento lui mi ha caldeggiato Francesco Bianchi, che in realtà già conoscevo e apprezzavo, come sassofonista. Francesco è un grandissimo altista ma io l’ho spinto a rimettersi a suonare anche il tenore. Il risultato a me piace molto, e mi pare anche a lui. Per la batteria non ho mai avuto dubbi: suono con Massimo Pintori da vent’anni, con diversi gruppi. Per me è uno dei più grandi batteristi italiani, forse sottovalutato. In più per me è come un fratello maggiore. Non potevo mettere insieme un quartetto senza di lui. Ecco, l’aspetto umano per me conta tanto. Voglio suonare con persone che stimo e con cui sto bene. Voglio passare dei bei momenti anche fuori dal palco, in auto, a cena, nei momenti in cui non si suona. La vita è troppo breve. Bisogna stare bene.



JC: Possiamo definire Dedications un disco minguscolemaniano? Nel senso che contiene l’ardore e la rabbia blues di Mingus e la libertà creativa di Coleman…


TMR: Mamma mia, un paragone forte. Certo Mingus e Ornette sono due dei miei supereroi preferiti. Non posso negare che i loro dischi e il loro sound risuonino sempre dentro di me. Ho ascoltato in maniera quasi maniacale praticamente tutti i loro album. Non saprei. Sicuramente non parlerei di rabbia, almeno non come la esprimeva Mingus. Erano altri anni, altri luoghi, altri uomini. Non che io non sia arrabbiato, per tanti motivi che puoi immaginare, ma non credo di aver messo della rabbia nella mia musica, almeno non in maniera conscia. Il blues per me è certamente importante. Ovvio che non lo esprimo come un nero americano, e non ci provo neppure, ma la bluesità (perdona il neologismo) credo di averla, magari in minima parte. La libertà, la creatività, la sincerità sono poi per me principi essenziali del fare musica.



JC: Chiaramente in esso c’è anche altro, contaminato e moderno…


TMR: Certamente. Come dicevo ho ascoltato tanta musica, di tanti generi, di tanti luoghi della terra, di tante epoche. Quando organizzo la musica per il quartetto tutto questo materiale che ho dentro, che sedimenta e sembra starsene lì buono buono, in qualche maniera viene fuori, credo. Sicuramente io sono ciò che ho ascoltato in questi anni.



JC: Dedications contiene nove brani, tutti scritti da te tranne Romero di Marco Fior e Something to live for di Billy Strayhorn. Ci racconti la genesi del progetto e le singole attribuzioni compositive?


TMR: Tutti i brani del disco sono dedicati a qualcuno o a qualche cosa. Volevo che ci fosse un filo rosso tra i pezzi, un legame che giustificasse la registrazione di un cd. Il disco comincia con E.B. ed è per Ed Blackwell, tra i miei battristi preferiti; Embrace-Lee, sulle armonie di Embraceable You, è dedicata a Lee Konitz, un gigante. Botosani è per mio nonno materno, un ebreo rumeno (nato per l’appunto a Botosani) che si trasferì in Italia per studiare medicina negli anni ’20. Sopravvisse alle leggi razziali e combattè il nazi-fascismo. After Sam l’ho scritta pensando a Sam Rivers, un genio e un grandissimo sassofonista. Romero è di Marco Fior e l’ha dedicata a Mingus (ma anche all’arcivescovo Romero, ucciso dalla CIA). Lackritz è il vero cognome di Steve Lacy, la dedica si capisce. Adoravo Steve, l’ho ascoltato più volte dal vivo. Al basso c’era Jean Jacques Avenel, fantastico. Mortonmartin è per due Feldman: Morton, il compositore: e Martin (Marty), l’attore. Fats è per Fats Navarro e per mio papà, che è morto un’anno fa e non ha potuto ascoltare il cd. Sicuramente devo a lui l’amore per il Jazz e il fatto di essere diventato un musicista (ma anche a mia mamma e a mia sorella). Something to live for l’ho dedicata a Billy Strayhorn. Ho pensato che nulla scritto da me sarebbe stato degno di questo gigante. Quindi meglio suonare direttamente un suo brano. Per l’occasione suono il basso elettrico e ho voluto coinvolgere Francesca Ajmar: perché la canzone ha un testo e andava cantato; perché secondo me Francesca canta benissimo e volevo la sua voce nel mio cd; perché suoniamo spesso in duo, e quindi finire il cd in duo potrebbe preludere ad un disco in duo per ringraziarla di tutto ciò che è e di tutto ciò che ha fatto per me in questi anni di vita insieme. E sono quindici…



JC: Se tu fossi un critico cosa scriveresti di Dedications?


TMR: Lo definirei un disco minguscolemaniano, nel senso che contiene l’ardore e la rabbia blues di Mingus e la libertà creativa di Coleman… a parte gli scherzi, non saprei. Non faccio il critico. Di me stesso poi, sarei cattivissimo…




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