Plastic Breath, il disco del trio europeo di Filippo Vignato

Foto: la copertina del disco










Plastic Breath, il disco del trio europeo di Filippo Vignato .


Plastic Breath rappresenta l’esordio discografico del trio formato da Filippo Vignato, Yannick Lestra e Attila Gyarfas. Abbiamo chiesto a Vignato di raccontarci questa loro esperienza e la loro idea di musica.




Jazz Convention: Quando hai scoperto di essere un musicista? E la scelta di suonare jazz?


Filippo Vignato: Devo dire che non c’è stato un momento preciso, essendo fortunatamente cresciuto in una famiglia dove la musica era ed è tuttora di casa. Mio padre è un insegnante di musica quindi iniziare da bambino a giocare con gli strumenti è stato molto naturale. Tra questi c’era anche un trombone e a otto o nove anni mi sono messo in testa di voler prendere lezioni. Il jazz è sempre stata la musica più ascoltata in casa e quindi mi ha sempre accompagnato in modo altrettanto naturale.



JC: Come ti sei formato? Quali sono i tuoi maestri, le tue guide artistiche?


FV: Dopo una formazione di base attraverso lezioni private ho iniziato un percorso accademico a 18 anni, che mi ha portato a studiare nei conservatori di Ferrara e Rovigo ed in europa: ad Amsterdam per pochi mesi nel 2011 e a Parigi per un periodo più lungo tra il 2013 e il 2015. È stato un percorso molto importante, che mi ha dato molto, facendomi avvicinare anche al mondo della musica classica e contemporanea, della scrittura e dell’orchestrazione di stampo accademico. Credo tuttavia che la vera formazione di un musicista jazz avvenga sul palco e dalle esperienze di condivisione e scambio con altri musicisti. I miei maestri sono stati e sono tuttora i musicisti più esperti di me con cui ho avuto la fortuna di lavorare nel corso degli anni fin da molto giovane. Forse è una semplificazione ma credo che il “nocciolo” del jazz risieda proprio in quel qualcosa che si può trasmettere soltanto facendolo, durante la condivisione del momento musicale tra diversi musicisti. È qualcosa che non si può intellettualizzare o canonizzare e che rende così speciale questa musica. Quando penso a maestri e guide artistiche penso ovviamente anche ai grandi maestri della storia del jazz che ho studiato e trascritto, ai compositori e solisti classici che amo, alle rock-band, ai dj e produttori che mi piacciono, rendendomi conto che però riesco soltanto a vedere la totalità di queste influenze e che è questa ad essere per me importante e significativa.



JC: Le tue prime esperienze in gruppi musicali e l’uso del trombone?


FV: Da bambino ho fatto parte per qualche anno della banda del mio paese, cosa purtroppo non molto allettante per me all’epoca vista l’età media piuttosto alta della maggior parte dei componenti, che potevano essere i miei nonni o bisnonni! Poi da adolescente ho iniziato a fare i primi concerti con qualche big band della mia zona e più tardi verso i sedici o diciassette anni con gruppi funk e soul. Ho anche avuto una parallela parentesi batteristica negli anni del liceo. Un gran divertimento, che poi però ho lasciato per concentrarmi completamente sull’amato trombone.



JC: Tu sei attivo in diversi progetti.


FV: Mi sento molto a mio agio nel ruolo di sideman: contribuire alla riuscita di un progetto di un altro musicista è per me sempre una grande soddisfazione. Inoltre, come sopradetto, le collaborazioni sono molto spesso occasioni di crescita musicale ed umana. Tra i progetti attivi e di cui faccio parte con grande onore vorrei citare Bread&Fox di Piero Bittolo Bon, Rosa Brunello Y Los Fermentos, il trio Zenophilia di Zeno De Rossi, Abbey’s Road di Ada Montellanico, la Rebel Band di Giovanni Guidi. Altri progetti sono dei collettivi: il nuovo trio con Francesco Diodati e Ariel Tessier che ha debuttato la scorsa estate a Terracina; il duo Elongate con Enzo Carniel al pianoforte; il quintetto Malkuth con Mirko Cisilino alla tromba, Filippo Orefice al sax tenore, Mattia Magatelli al contrabbasso e Alessandro Mansutti alla batteria; Consonance, quartetto multiforme di cui condiviamo la leadership con la contrabbassista Rosa Brunello.



JC: Con Yannick Lestra e Attila Gyarfas suonate assieme dal 2014. Plastic Breath, primo disco del trio, documenta questo vostro sodalizio.


FV: Sin dalle prime sessioni fatte insieme c’è stato subito molto feeling tra noi, grazie alle tante affinità nel modo di pensare la musica. Abbiamo fatto qualche concerto, registrato un po’ di materiale e Marco Valente, sempre attento ai fermenti musicali che accadono nell’underground, si è da subito dimostrato interessato al nostro lavoro. Ne approfitto per spendere un elogio per Marco ed Auand, etichetta di grande coerenza che da molti anni documenta ciò che succede nella scena italiana più giovane, che essendo tale è dotata di grande potenziale, grande freschezza e di altrettanto bisogno di visibilità ed attenzione che spesso non è semplice ricevere. Attila e Yannick sono per me dei musicisti ideali: sono dotati di grande ascolto e sensibilità, hanno un bellissimo suono e pur avendo una forte personalità musicale collaborano sempre allo scopo comune.



JC: Plastic Breath è un lavoro dove la dimensione elettro/acustica e quella tra improvvisazione e scrittura vanno di pari passo.


FV: Vanno di pari passo ed altrettanto si intersecano fra di loro. L’utilizzo di suoni elettronici e filtrati è una potenzialità espressiva in più che ci permette di immaginare e creare scenari sonori alternativi a quelli di una dimensione completamente acustica. Questo avviene perlopiù improvvisando ed in tempo reale, ed anche sul disco non c’è pre o post-produzione in questo senso. Utilizziamo queste sonorità con parsimonia, sovrapponendole o alternandole a passaggi completamente acustici (se così si può dire, essendo comunque il rhodes sempre presente). Questa dualità e quella tra scrittura e improvvisazione sono intrinseche al nostro approccio alla musica: il nostro obiettivo è in entrambi i casi quello di creare valore e interesse proprio attraverso la messa in relazione di questi differenti aspetti della pratica musicale.



JC: La musica suonata tende a riempire gli spazi, ha una consistenza materica di notevole spessore e nello stesso tempo è fluida.


FV: Credo che il centro della musica di Plastic Breath e del trio in generale sia il suono. La consistenza materica deriva in buona parte dal fatto che c’è una forte identità timbrica sia individuale sia collettiva e, partendo da questo, è poi il processo improvvisativo collettivo a rendere la musica più o meno liquida, rarefatta. In altre parole, il suono collettivo, materico e cangiante, svolge un ruolo fondamentale per lo sviluppo della narrazione musicale stessa. Questo aspetto, pur chiaramente percepibile nel disco, trova terreno particolarmente fertile nei concerti dal vivo, dove i tempi sono più dilatati e possiamo calarci a fondo nel seguire il suono del momento.



JC: I brani sono tutti originali di cui tre in cooperativa e gli altri scritti da te.


FV: I brani “cooperativi” sono delle improvvisazioni libere, nate spontaneamente senza indicazioni o piani pregressi. I brani “scritti”, che comunque contengono più o meno tutti delle sezioni “libere”, sono di mia composizione tranne uno, Stop This Snooze, scritto da Yannick. Yannick e Attila sono dotati di un talento compositivo assolutamente interessante per le mie orecchie e quindi è stato naturale che anche loro portassero musica da suonare. Il trio è a mio nome ma agisce quasi come un collettivo, cosa che ritengo molto preziosa e di grande aiuto alla riuscita della musica.



JC: Un tuo giudizio su Plastic Breath?


FV: È molto difficile per me dare un giudizio ma posso dire quello che per me è importante che sia: un disco molto spontaneo e sincero, senza artefatti e con una buona dose d’imprevedibilità.




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