Tosky Records – TSK018 – 2016
Luigi Masciari: chitarra
Aaron Parks: Fender Rhodes, pianoforte
Roberto Giaquinto: batteria
special guest:
Oona Rea: voce
Sei tracce diverse per attitudine, interpretate con slancio da un trio disegnato secondo il dettato dell’organ trio, vale a dire chitarra, batteria e, appunto, Fender Rhodes e in grado di giocare con la libertà provocata dall’assenza del basso. In realtà, poi le tracce diventano sette con la bonus track che vede impegnato il solo Aaron Parks al pianoforte nella conclusiva Don’t touch my chords.
The G-Session vede Luigi Masciari confrontarsi con il suono e le atmosfere di una città come New York, insieme a due musicisti “di casa” nella cosmopolita città statunitense, vale a dire Aaron Parks e Roberto Giaquinto. Il chitarrista si interroga attraverso le composizioni presenti nel lavoro sulle possibilità espressive del particolare formato scelto per il combo, mettendolo a contatto con le tante anime provenienti dal jazz, dal mainstream alla fusion, dalle derive metropolitane a certe suggestioni etniche ed r’n’b.
La dimensione liquida portata dal Fender Rhodes permette al trio di muoversi in maniera agile all’interno dei riferimenti scelti e rilanciare ulteriori suggestioni. Se le prime note di Mr. Jay mettono in chiaro l’attrazione per le atmosfere di certo jazz elettrico degli anni settanta, ritroviamo in Music Man e in Boogie Blue lo sviluppo di quell’attrazione, sia nello studio dei maestri della chitarra elettrica, ma anche nell’andare indietro nel tempo e riprendere lo stesso discorso alle sue fondamenta. Vox e Echoes formano in maniera analoga un altro “filone” melodico all’interno del disco: una progressione pacata con un sostegno ritmico cadenzato e morbido, dispone una dimensione cantabile ed evocativa molto particolare. Se in Echoes questo è reso ancora più evidente dalla presenza della voce di Oona Rea, in Vox sono Masciari e Parks a far prevalere l’aspetto del canto suddividendosi il lavoro di canto e sostegno armonico in un continuum melodico. Seven Dollars rappresenta la proiezione più avanzata – ma anche, in qualche modo, una sintesi del discorso condotto da Masciari: una ritmica leggermente orientata verso il drum’n’bass, la chitarra che oscilla tra tagli aggressivi e spigolosi e una vena più morbida per poi sfociare in un assolo denso e articolato, il Fender che ne asseconda gli umori in modo efficace.
Masciari pone i suoi riferimenti nel jazz e, in generale, nella musica della seconda metà del Novecento: The G-Sessions rappresenta però il risultato di un confronto libero e spontaneo con le varie ispirazioni, con i grandi chitarristi del passato, con le scuole e con i maestri, il “prodotto” di un approccio che non si lascia irretire dalle regole e dagli stilemi per provare, comunque, ad offrire una prospettiva quantomeno soggettiva. La scelta di una formazione senza basso incanala le energie dei tre musicisti, ne stempera i risvolti più muscolari nella necessità funzionale di dover supportarsi reciprocamente. Gli spazi vengono rinegoziati di continuo tra i tre musicisti, giocando anche sulle differenze stilistiche e sulle possibilità dei singoli strumenti: le trame oblique e spesso sospese di Parks e l’impatto concreto e senza fronzoli di Giaquinto rappresentano perciò, a seconda dei casi, la sponda espressiva per le linee di Masciari, sempre in equilibrio tra impeto e controllo.
E alla fine, come a pacificare tutto il percorso compiuto avanti e indietro nel tempo, la tensione della scoperta di una voce personale e il rispetto per i giganti del jazz, arrivano le atmosfere di Don’t touch my chords: un’interpretazione che fa pensare al musicista che al termine della serata, si siede al pianoforte e, con semplicità, senza retropensieri, per il proprio gusto personale e non per soddisfare i desideri di un ascoltatore, inizia a girare intorno a una canzone lasciandola trasparire poco a poco, gustando il suono e il peso di ogni passaggio e di ogni accordo.
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