Foto: Ambrogio Colombo
Da Sanremo al cinema, Tempera vince sempre!
Jazz Convention: Quando si parla con te, c’è sempre l’imbarazzo di trovare il punto di partenza: hai fatto davvero di tutto. Pianista, direttore d’orchestra, compositore… C’è qualcosa che ti piacerebbe fare in musica e non hai ancora fatto?
Vince Tempera: Ho fatto tutto quello che mi piaceva fare. Non sento davvero nessuna mancanza nella mia carriera. Semmai mi piacerebbe ritornare indietro per rifare delle cose. Gli americani con cui ho lavorato mi hanno sempre detto che solo in Italia diamo così tanta importanza alle etichette. Noi siamo sempre lì a dire «Io faccio il jazz» oppure «Io faccio il pop» e via dicendo. E, per questo motivo, sono sempre stato molto criticato proprio perché saltavo da un genere all’altro. Loro invece suonano tutto, non hanno questa problema e vivono la musica a 360 gradi.
JC: Mi voglio concentrare su alcuni episodi tra i tantissimi che hanno caratterizzato la tua carriera. Il primo di cui voglio chiederti è la Pleasure Machine, una sorta di gruppo pop evoluto rispetto alle origini…
VT: Si, La macchina del piacere con Ares Tavolazzi ed Ellade Bandini… Si segue sempre un modello: a quell’epoca, io seguivo Elton John e il suo modo di suonare, Ellade Bandini come batterista frequentava sia il funk di James Brown che la musica di Blood Sweat & Tears e dei Chicago – per capirci, un jazz pop con i fiati. Ares Tavolazzi si poneva per così dire a metà strada tra le due musicalità.
JC: Un’altra formazione era il supergruppo de Il Volo…
VT: … dove suonavo le tastiere e con me c’erano Gianni Dall’Aglio alla batteria, Mario Lavezzi e Alberto Radius alle chitarre, Gabriele Lorenzi alle tastiere e al basso avevamo Bob Callero di Genova. Eravamo in piena epoca progressive: io strizzavo l’occhio ai Soft Machine, mentre la PFM guardava più ai King Crimson. I Soft Machine erano un gruppo un po’ più avanzato più orientato al jazz. I nostri produttori erano Lucio Battisti e Mogol che aveva scritto i testi del nostro primo album. Prima del secondo disco, Alberto Radius e Mogol litigarono e si ruppe la magia. Il nostro secondo disco fu solamente strumentale perché non avemmo i testi di Mogol. A quel punto, avremmo anche potuto andare avanti, ma il problema era che avevamo “in casa” davanti a noi la PFM che pubblicava per Numero uno e il Banco di Mutuo Soccorso che era molto attivo dal vivo: se l’etichetta ci avesse spinto, il management avrebbe potuto fare qualcosa per noi, altrimenti niente. Dato che Mogol contava molto, non ottenemmo questa spinta. Facemmo anche altre due produzioni, tra cui una con Fausto Leali, un album di passaggio che non funzionò molto e che poi mi chiesero di rinforzare con un singolo. Venne fuori questa canzone, Io camminerò, che vendette moltissimo e trascinò poi l’intero album.
JC: Come arrangiatore, hai collaborato con Francesco Guccini e con Loredana Berté, tanto per fare due nomi…
VT: Si, forse sono i due estremi delle mie partnership. Collaboro con Guccini dal 1967 e anche questa sera suonerò con lui. Fui chiamato a Modena dal suo produttore di allora, Corrado Bacchelli dei Nomadi, per arrangiare tre o quattro pezzi che Guccini aveva scritto per i Nomadi, brani come Giorno d’Estate o Ofelia. Stiamo parlando del primo album dei Nomadi negli anni ’60. Ho arrangiato la loro versione di Ho difeso il mio amore. Con Francesco ci conoscemmo allora: siamo arrivati al 2016 e siamo ancora in giro con i concerti. Adesso lui racconta e parla e noi, I Musici, suoniamo. Non c’è più Ellade Bandini, ma abbiamo Ivano Zanotti alla batteria. C’è Antonio Marangolo al sax. C’è Flacco Biondini alle chitarre e alla voce: Flacco è bravo a dare un’anima “gucciniana” alle canzoni che interpretiamo, non imita Francesco. Mentre con la Berté: all’epoca, feci TIR e un altro disco. Negli stessi giorni in cui stavo facendo Io camminerò con Fausto Leali, mi chiama Gianni Nardello, direttore artistico della CGD, e mi dice: «Senti Vince, abbiamo un’artista a fine contratto. Io ho trovato una canzone per lei e credo che possa interpretarla, ma l’etichetta non crede più in lei e non vogliono rinnovarle il contratto.» Loredana aveva appena fatto Streaking. Gianni Nardello mi diede Sei Bellissima e mi chiese di fare un provino di nascosto. Lo facemmo alla Saxo Records, in Via Borsieri, qui a Milano, vicino a dove ora è il Blue Note. Era l’anno della bomba a Piazza della Loggia, a Brescia. E venne con me anche Mario Lavezzi che voleva conoscere la Berté: rimase dietro di me in regia, mentre Loredana cantava il brano. Dopo qualche giorno, mi chiama Nardello e mi dice: «Alla CGD hanno ascoltato il provino e sono molto interessati…» e mi danno il budget per fare il 45 giri. Mi trasferisco nella sala della CGD, con Ezio De Rosa come fonico, e registriamo la voce, i cori, il gruppo e l’orchestra. E da quella sessione è uscita la versione che tutti conoscono di Sei Bellissima. Appena pubblicato, il disco entra in classifica in Italia, in Spagna e in Sudamerica e la CGD le ha rinnovato il contratto. A quel punto, visto che tra lei e Mario Lavezzi era nata una storia, io mi sono occupato della parte musicale e lui l’ha seguita per quello che riguarda il canto.
JC: Hai composto colonne sonore per film e per la televisione. Posso citare a memoria, La circostanza di Olmi, Fantozzi di Salce con Villaggio, Sette note in nero… ma sono curioso di sapere come è nata la collaborazione con Quentin Tarantino per Kill Bill…
VT: Guarda, io sono una persona fortunata. Tarantino era arrivato quasi alla fine del montaggio e gli mancavano dei pezzi musicali. Sofia Coppola gli regalò il 45 giri delle Sette Note in Nero: per lui è stata una illuminazione, era la musica con cui completare la colonna sonora. Sette Note in Nero non era un vero e proprio horror, era un giallo alla Dario Argento come andava di moda in quel periodo. Io e il mio amico Franco Bixio avevamo costruito un carillon con le “sette note in nero”, appunto, per una particolare scena del film dove la protagonista porta con sé questo carillon che le ha regalato l’amante e che innesca tutta una serie di episodi che non racconto per non svelare la trama a chi non ha visto il film…
JC: Un altro aspetto sono le sigle dei cartoni animati in TV, tanto per dirne una, la sigla di Ufo Robot è stata disco d’oro…
VT: Sempre una casualità… Eravamo in Fonit Cetra e dovevamo, insieme ad Albertelli, produrre un cantante. Arriva una telefonata dal direttore artistico: «Mi stanno chiamando da Corso Sempione: hanno un cartone animato che va in onda tra un mese e non sanno a chi rivolgersi. Andate a vedere di cosa si tratta…» La nostra risposta è stata: «Se ci pagate il taxi, noi andiamo!» Solamente per una questione di professionalità, avremmo tranquillamente avuto i soldi… (sorride – n.d.r.) Arriviamo, vediamo questo cartone in bianco e nero, con la visualizzazione pessima di un registratore americano dell’epoca, ovviamente in lingua originale, in giapponese… Guardando il cartone ci siamo resi subito conto che si trattava dell’eterna lotta tra il bene e il male, con i tipi caratteristici di queste storie. E siamo partiti a scrivere: la musica l’ho composta in pochi minuti e Luigi Albertelli a ruota ha buttato giù il testo. L’ispirazione, se vuoi, era quella di Maynard Ferguson, della colonna sonora di Rocky, e il passo musicale voleva essere quello di una “carica”, per così dire… E, da quel momento, c’è stato tutta la stagione delle sigle dei cartoni animati.
JC: Cambiamo ancora argomento e parliamo del Festival di Sanremo… le tue presenze sul palco del festival ormai sono tantissime.
VT: Eh sì, a partire da “Zingara” fino a quest’anno quando abbiamo portato Francesco Gabbani che ha vinto con “Amen” la sezione delle nuove proposte. Adesso, però, Sanremo è più un evento televisivo che musicale: i giovani ascoltatori vanno a cercare la loro musica in altri contenitori televisivi come i talent show oppure vanno su internet.
(Nota dell’autore: Lo spettacolo Tu vuo’ fa l’Americano in Sala Barozzi, nello scorso settembre, dedicato alle canzoni comiche di Carosone e Buscaglione, al quale Vince Tempera ha partecipato, si è svolto nei giorni immediatamente vicini al compleanno di Tempera: con la “complicità” della Gertie Production e di Fulvia Serra, abbiamo chiesto proprio a Francsco Gabbani di cantare “Tanti auguri a te” per Vince e, a sorpresa, abbiamo mandato la registrazione in onda durante lo spettacolo.)
JC: Tu sei sempre stato un appassionato di jazz? Quali sono i tuoi periodi preferiti?
VT: Il jazz per me parte dal 1910 e arriva fino al 2000…
JC: Quindi ascolti anche le ultime tendenze?
VT: Beh, a mio avviso le ultime tendenze non sono jazz, sono solo tentativi, per così dire… Ma lo stesso succede anche negli Stati Uniti. Sono gli impresari che mettono nel calderone del jazz cose che hanno poco a che spartire con il jazz. Il punto è che gli ultimi grandi jazzisti o sono morti o sono troppo avanti con gli anni: il jazz, per me, erano Ellington, Count Basie, Glenn Miller, John Coltrane e quella generazione.
JC: Ultimamente, tu promuovi il progetto Vik & The Doctors of Jive…
VT: SSi, la formazione è composta da Vittorio Mazioli alla voce, Stefano Pennino al piano, Alex Carreri al contrabbasso, Tommaso Bradascio alla batteria, Germano Zenga al sax tenore, Fabio Buonarota alla tromba, al quale si affianca come seconda tromba anche Fabio Moretto, e, infine, Carlo Napolitano al trombone. Presenteremo il nuovo disco al Blue Note di Milano il prossimo 9 dicembre.
JC: Ho notato che gli arrangiamenti dei brani di Carosone e Buscaglione non sono una semplice riproposizione di cose già ascoltate, ma cerchi di andare anche in altri territori…
VT: Ad esempio in Guarda che luna mi sono ispirato agli Animals, il gruppo di Eric Burdon, The House of the rising sun… Ho cercato quell’atmosfere più blues, più calda, più densa.
JC: È un modo per recuperare il jazz che si faceva negli anni cinquanta in Italia che, a mio avviso, era molto avanti…
VT: Era il jazz che ascoltavamo e suonavamo al Capolinea con Gigi Arienti. Quel luogo era veramente il punto di incontro del jazz italiano che, all’epoca, si concentrava molto su Milano. E dove arrivavano tantissimi musicisti americani.
JC: Immagino che tu abbia lavorato anche con diversi mostri sacri del jazz americano…
VT: Negli anni novanta, ad esempio, ho lavorato a Roma con l’orchestra di Ellington, diretta all’epoca dal figlio, da Mercer Ellington. Avevamo anche Dee Dee Bridgewater come cantante e realizzai per lei degli arrangiamenti di alcuni brani di Gershwin. Ma, all’epoca, quando cominciai, scrivevo gli arrangiamenti per Gianfranco Intra che è stato un grande jazzista e riportato in tutte le enciclopedie del jazz mondiale, e negli anni è stato direttore artistico della CGD.
JC: E come vedi la scena odierna del jazz italiano?
VT: Vedo che, oggi, nella maggior parte dei casi, i musicisti fanno solo esercizio allo strumento, non c’è inventiva. Nell’improvvisazione ci deve essere anche la melodia, una logica: se continui a fare le scale che hai imparato a scuola, non significa nulla. Sono tutti musicisti molto validi, da questo punto di vista non ci sono problemi, solo che nel jazz devi dare un’emozione, mancano la creatività e la spontaneità. Quando io ho cominciato, in studio avevo Basso, Valdambrini, Masetti… sentiti quelli, non senti più nessuno. Lo stesso con Ray Charles, ad esempio: quando ne riesce un altro così. Ho arrangiato dei brani per lui, quando venne alla Bussola. Era di una semplicità estrema. Suggerisco a tutti di vedere Piano Blues, il documentario realizzato da Clint Eastwood per la serie The Blues di Martin Scorsese: è l’episodio in cui si parla di tutti i pianisti del blues. Ha rintracciato pianisti di novant’anni che magari suonano con tre dita, ma tirano fuori delle frasi blues come deve essere fatta, con tutta quella grande densità. All’epoca, tanto per dire, io ho visto Sun Ra con tutto l’armamentario scenografico con cui accompagnava la sua musica: ora vedere sul palco i nipotini della Sun Ra Orchestra mi fa abbastanza ridere.