Foto: la copertina del disco
Francesco Orio: cause, effetti e traiettorie della musica
Francesco Orio è un giovane pianista di cui si sta parlando molto e bene. Causality chance need è il suo primo lavoro da leader realizzato in trio con Fabio Crespiatico al basso elettrico e Davide Bussoleni alla batteria. Il disco è inciso per la casa discografica NAU e i brani sono tutti originali, tranne Oceano Senza Onde scritto da Umberto Petrin. Lo abbiamo intervistato e chiesto di parlarci di lui e della sua musica.
Jazz Convention: Chi è Francesco Orio, come ti sei formato, quali sono state le tue influenze?
Francesco Orio: Sono una persona curiosa. Laurea triennale e magistrale in Biotecnologie, studi classici (anche se non ho terminato il percorso di dieci anni, mi sono fermato all’ottavo), biennio in pianoforte jazz. L’università mi ha dato certamente qualcosa: una struttura mentale. Mia madre avrebbe preferito che mi desse anche un lavoro, ma fortunatamente ha poi accettato che è la musica quello che desidero fare. Le mie influenze musicali sono molteplici. Il mio imprinting è stato Mingus (Changes One e Changes Two, in particolare: mio padre ha letteralmente consumato quei vinili e io stavo con lui ad ascoltarli quando avevo 3 o 4 anni). Dopo ho ascoltato molta musica classica – il periodo Romantico è sempre stato il mio preferito -, poi col tempo ho cambiato un po’ idea. La musica antica, parlo di ciò che è avvenuto in Europa tra il 1100 e il 1500, mi affascina e trovo che ci sia moltissimo materiale interessante; tutto il XX secolo, secolo del jazz ma anche della musica cosiddetta “contemporanea” occidentale. Del jazz amo le origini. Trovo che lì dentro ci sia già tutto: Jelly Roll, “The Lion” Smith, ma anche e soprattutto Armstrong e Bix. Durante i vari decenni del ‘900 sono successe un sacco di cose negli Stati Uniti. Ho ascoltato e studiato molte di quelle cose, e “preso” anche tanto, in particolare da Nichols, Tristano, Monk, Ornette Coleman, il primo Miles. Ma è agli anni ’60 che ho dedicato la mia attenzione in maniera particolare. È quella la decade che più mi ha catturato in assoluto: Coltrane ha dato il suo massimo; Andrew Hill ha tirato fuori dei dischi fantastici; Eric Dolphy riusciva a trovare un connubio tra serialismo e jazz (anche se in realtà ci era già riuscito in maniera egregia nel 1958 Gaslini con Tempo e Relazione); Gato Barbieri che metteva le basi per un linguaggio post-coltraniano tutto nuovo (che poi non sviluppa, come sappiamo). E continuando, nell’Europa centrale nasce tutto quello che è il movimento dell’improvvisazione totale e radicale; in Olanda mette le radici il BIM e inizia a crescere quella che sarà la ICP Orchestra con Mengelberg, Bennink e tutti gli altri. Insomma, gli anni ’60 sono stati il top per quanto mi riguarda.
JC: Causality chance need è il tuo primo disco per l’etichetta Nau. Come nasce questo progetto e quanto tempo ha richiesto la sua gestazione?
FO: Causality chance need nasce da un’idea compositiva che ho iniziato a sviluppare in maniera generale in piano solo all’inizio del 2015, quando cominciavo a rendermi conto dell’esigenza di un’idea narrativa nella musica che suonavo. Avevo molti concerti in piano solo in quel periodo e la prassi era diventata il collegare i brani tra loro con degli espedienti tecnici, insomma dei grandi medley. Era diventato quasi un esercizio. Allora ho cominciato a pensare a come dare un senso narrativo al singolo concerto e più in generale alla musica. Questo sta alla base di Causalità Chance Need. Ci ho messo circa un anno e mezzo di pensate e di prove con il trio per ottenere un risultato che ritenessi valido.
JC: Quando è nato il trio, come vi siete conosciuti, cosa vi lega dal punto di vista musicale?
FO: Il trio nasce dopo la proposta di Gianni Barone della Nau. Mi ha dato l’opportunità di registrare un disco con una formazione scelta da me, e di conseguenza la decisione è stata facile. Ho scelto due musicisti con cui avevo già suonato in passato: Davide Bussoleni, il batterista, è stata la prima persona con cui ho iniziato a sperimentare il jazz. Suoniamo insieme da nove anni e abbiamo un livello di intesa davvero ai limiti dell’empatia, sia in musica sia nella vita di tutti i giorni; con il bassista, Fabio Crespiatico, abbiamo avuto l’opportunità di suonare insieme per dei brevi periodi negli anni passati, ed è un musicista straordinario: suona il contrabbasso in maniera egregia e il basso elettrico ancora meglio, con un suono e un’idea davvero personali. Quello che viene fuori da questi due musicisti insieme è unico e particolare. Non sarebbe lo stesso con un batterista diverso o un bassista diverso. È quello che cercavo.
JC: Se volessimo dare una prima definizione di Causality chance need, diremmo che il suo corrispettivo in letteratura sarebbe il romanzo di formazione…
FO: Più che a un romanzo di formazione penso a Il gioco del mondo di Julio Cortàzar, celebre romanzo dello scrittore argentino. È una storia con molteplici vie di lettura, nel vero senso della parola: l’autore suggerisce due diversi ordini di lettura dei capitoli, e sprona il lettore a trovarne un terzo e un quarto e così via. La trama assume scorci e colpi di scena inaspettati in base all’intreccio sempre differente.
JC: Improvvisazione: che significato ha per te questo termine?
FO: È un mezzo per essere onesti. Troppo spesso sento persone (musicisti, attori e via dicendo) “improvvisare” su dei temi, quando in realtà stanno solo esercitandosi a ripetere un esercizio di copiatura vuoto e senza scopo. Per essere onesti bisogna, a mio avviso, trovare il proprio modo di dire le cose, anche con un continuo “copiare” e prendere in prestito, ma filtrando e rendendo proprio il tutto.
JC: JC Peas, primo brano del disco, si apre con un forte riferimento a Coltrane, e poi c’è Tristano in Lennie, ci sono Ornette Coleman e Monk. Quanto devi alla loro musica?
FO: Come già accennato prima, questi quattro nomi sono fondamentali per me per motivi differenti. I riferimenti vogliono essere sia dei chiari omaggi, sia un modo per sentirmi vicino a loro e alla loro musica. Mi piace davvero prendere un brano, o una melodia o un’idea di un autore che amo e suonarlo, risuonarlo, smontarlo, rimontarlo, fino a che credo di riuscire a trovare l’idea che ci sta dietro, con tutta l’umiltà possibile. Devo moltissimo a questi quattro, come a tanti altri, perché il mio modo di suonare è una diretta conseguenza di quello che ho filtrato da loro, consciamente e inconsciamente.
JC: Il disco contiene dodici brani originali. La tua musica all’interno si sviluppa attraverso “l’assemblaggio” di frammenti, particelle intuitive di melodie e ritmi che poi trovano spazio e diventano corpi sonori…
FO: Esatto, questa è l’idea che sta alla base del lavoro: comporre e ricomporre estemporaneamente, con tutto il trio, questi brevi frammenti che ho selezionato (alcuni originali, altri rielaborazioni di materiale esistente). I frammenti sono costruiti in modo da poter essere approcciati in molti modi diversi, ritmicamente, melodicamente e timbricamente. Da una sequenza di quattro note possiamo ricavare un ritmo e giocare su quello, oppure una sequenza di intervallo e lavorare esclusivamente su quella, oppure ancora improntare tutto sul timbro e sviluppare la narrazione su timbri diversi appartenenti a frammenti diversi. E ogni volta può essere diverso. Anzi lo è molto spesso. In genere ci diamo delle forme prefissate, ad esempio “forma fuga”, oppure “sonata”. Iniziamo da un frammento sapendo che struttura dovrà avere il brano, e poi si aggiungono gli altri frammenti a seconda della forma scelta. Altre volte invece, suoniamo più frammenti contemporaneamente, sovrapposti. A me diverte molto.
JC: E poi, componi e scomponi…
FO: Sì, un frammento viene sviluppato ritmicamente, e invece no. Si distrugge tutto, e si ricomincia. La ricomposizione estemporanea ha il problema del tempo: finché uno se ne sta seduto con foglio e matita in mano è sempre libero di cancellare, tornare indietro, inserire, spostare. Ricomporre suonando invece ha dei paletti in più, perché il tempo narrativo – percettivo scorre, e non si può dire all’ascoltatore: «Ecco adesso prendi questa cosa che hai appena ascoltato e immaginatela suonata prima dello scorso brano». No, trovo che sia bello e giusto sperimentare, con un minimo di cognizione.
JC:Anche in una ballad come Non Mia il tuo approccio segue dei canoni per nulla tradizionali.
FO: Non mia è l’unico brano con una vera e propria melodia, diciamo tradizionalmente intesa. In effetti lo sviluppo che si può ascoltare sul disco è poco ortodosso, perché decidiamo estemporaneamente di lavorare su degli intervalli che suona il basso in una sezione del tema, invece che sulla struttura armonica. Chiaramente il tutto acquista un sapore più armolodico, che può suonare strano su una melodia come quella di Non Mia. L’importante è che alla fine ci sia equilibrio.
JC: Nelle due tracce di Oceano senza onde anziché il piano si ascolta con sorpresa la voce del pianista Umberto Petrin.
FO: Petrin è stato il mio insegnante di pianoforte al conservatorio. Una persona davvero competente e con una cultura variegata in moltissimi campi dell’arte: a lezione non suonavamo quasi mai, si parlava di tutto, dagli scacchi all’arte visiva, dalle scarpe (Petrin sempre elegantissimo) o di un suonatore di uno strumento esotico che aveva conosciuto a qualche festival. Da giovane faceva lo scrittore in maniera professionale, accostando così la musica e la parola scritta. Gli ho proposto un’idea riguardo un’installazione di Bill Viola, intitolata Ocean without a shore: avevo scritto una musica ispirata a quell’opera e lui subito si è proposto di scrivere un testo originale per il brano. Ne sono stato entusiasta.
JC: Il Borgo di Gaslini vuole essere un omaggio a un musicista a cui spesso la critica ti accosta…
FO: Nel 2015 mi è stato assegnato il Premio Giorgio Gaslini, istituito dopo la scomparsa del maestro nel 2014. Ho avuto così modo di entrare in contatto con Borgotaro, paese in cui Gaslini ha passato gran parte della sua vita, con Simona Caucia (la vedova Gaslini), con il Sindaco e con il dottor Vietti, presidente dell’Istituto Manara a cui Gaslini donò gran parte della sua biblioteca e discoteca. Mi sono sentito davvero accolto e musicalmente apprezzato, come mai mi era capitato prima: persone genuinamente interessate e competenti, di una gentilezza smisurata. Il titolo del brano è un chiaro riferimento a Borgotaro, ma anche a Il bosco di Beuys, un’opera di Gaslini tra le mie preferite insieme a Tempo e Relazione, di cui ho avuto l’onore e il piacere di ricevere la partitura.
JC: I prossimi tuoi progetti saranno un seguito o un ‘evoluzione della musica suonata in Causality chance need?
FO: Causality Chance Need ora riposa e si svilupperà a tempo debito. È una via ancora aperta e molto importante per me. Sto lavorando contemporaneamente e in parallelo a più cose, tutte differenti e complementari. Credo che due di esse vedranno la luce nel 2017.
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