Foto: Silvia Miglietta
Joe Magnarelli: ascoltare con l’orecchio del jazzista
Casale Monferrato, Accademia Le Muse – 11.3.2017
Vercelli, Piccolo Studio – 12.3.2017
Joe Magnarelli: tromba
Davide Calvi: pianoforte
Stefano Profeta: contrabbasso
Claudio Saveriano: batteria
Si è appena spenta l’eco dei tamburi di John Riley all’Accademia Le Muse, quando ci si ritrova nello stesso salone, il sabato successivo, ma la situazione è totalmente diversa. È ancora Ima Ganora, con la collaborazione di Claudio Saveriano, batterista leader del Trio, a ospitare una nuova star statunitense: Joe Magnarelli, nativo di Syracuse, ma di ascendenza pugliese. Il trombettista, dopo il deflagrante debutto sulla scena newyorkese nel lontano 1986, è tuttora presente con un palmares di tutto rispetto in quanto a collaborazioni: da alcuni anni si dedica altresì all’insegnamento e alla formazione di nuove leve musicali.
Forte di una spiccata personalità, e di una tecnica invidiabile che imprime il suo sigillo, ma senza sovrastare, si trova a proprio agio quando si unisce specialmente al di fuori degli States a piccole formazioni collaudate. Le sue – dice – sono esperienze che si sente di affrontare per ricercare nuove conoscenze e stimoli operativi da applicare poi all’attività di docente. Anche questa è una strada che porta a mantenere vitale un genere musicale che musicisti con scarso spirito innovativo dicono essere morto, mentre invece è l’esatto contrario, seppur non ci si trova di fronte alle svolte eclatanti verificatesi nella parte centrale del secolo scorso.
Nei due concerti tenuti a Casale Monferrato e al Piccolo Studio di Vercelli, Joe Magnarelli – con il Trio di Claudio Saveriano, batteria, Davide Calvi, pianoforte e Stefano Profeta, contrabbasso – è stato il protagonista di due eventi distanti meno di 24 ore – e una ventina di chilometri – che meritano interesse e danno possibilità di verificare sia differenze ambientali e di pubblico che, come sempre, esercitano influenza nei musicisti nel presentare un programma che, come si sa, si basa sulla chiamata estemporanea di un brano piuttosto che un altro. Va da sé che se lo possono permettere musicisti che, senza provare in via preventiva, sono sensibili all’interscambio, forti della conoscenza di un cospicuo bagaglio musicale e di collaudata sicurezza di esecutori. Più un jazzista sa ascoltare meglio sa suonare.
Nello scambio di poche battute prima del concerto – lui si è presentato come… Giuseppe – si va ad un accenno quasi scontato su Miles Davis e, in particolare, sulla svolta impressa alla sua musica a metà anni ottanta. Ben diverse le cose fatte da Joe che, però, apre il concerto proprio con un brano di Miles, che nel 1962, aveva con sé Wayne Shorter al sax tenore, Paul Chambers al contrabbasso e Jimmy Cobb alla batteria: Devil May Care. Un breve brano che permette a Joe di mettere in luce la sua abilità su più registri, suonando anche la parte della seconda voce brevemente introdotta dal pianoforte, che nel secondo brano, Tad’s Delight di Dameron, ha più spazio a disposizione sia sul tema che sull’improvvisazione solo. È ancora il pianoforte di Davide Calvi ad aprire il terzo brano, Old Folks, tradizionale, in cui la tromba di Joe delinea stupende sfumature con l’uso del vibrato – ormai non più frequentato dai trombettisti: ma qui ci sta tutto! – che ci proietta nel passato, che un buon didatta deve far conoscere agli allievi. È emozionante il suono della tromba, acustico, a distanza di meno di un paio di metri, specialmente se cambia totalmente l’atmosfera, come accade con l’intro della composizione di Magnarelli, da solo, in New York J Funk; la successione del contrabbasso, del pianoforte e della batteria, nell’ordine, precede poi l’assolo di tromba a campana libera, con volute circolari marcate dai ritmi. L’atmosfera è ormai calda per lanciarsi, Joe e Davide, in uno standard celeberrimo: All the Things You Are di Jerome Kern, fertile terreno di cimento a metà del secolo scorso, di Chet Baker, Clifford Brown, Miles Davis con Tad Dameron al pianoforte: ma fermiamoci qui con i nomi, perché l’elenco sarebbe infinito. Bisogna però sottolineare che, seppur in formazione ridotta all’osso, tromba e pianoforte non fanno certo rimpiangere una terza voce a complemento: la loro parte solistica è veramente super! Nei tre brani successivi, senza elencarne i titoli, la personalità dei singoli musicisti ha modo di manifestarsi con grande effetto e si giunge così al brano finale: Party Time di Lee Morgan. In questa composizione del grande Brother Lee le linee di sviluppo sono molteplici – nell’originale del 1967 sono presenti le voci di sax tenore e vibrafono oltre la tromba e i ritmi – per cui ridotte, si fa per dire, ai due soli strumenti guida – tromba e pianoforte – i due nostri presenti devono far ricorso a tutta la loro bravura di integrazione sonora, supportati dall’interplay di Stefano e Claudio, al basso e batteria. Insieme, tutti e quattro, sono riusciti a far brillare un gioiello, quasi un capolavoro. Calorosi applausi e ringraziamenti concludono un ottimo concerto.
Per chi scrive, l’appuntamento è al giorno successivo, per il concerto pomeridiano, a Vercelli, al Piccolo Studio al fine di scoprire quali saranno le differenze; e ci saranno come ha confermato Claudio Saveriano, promoter per conto del Centro Vercelli Musica e leader del Trio che già conosciamo. Il luogo del concerto non è, acusticamente, dei più felici: il suono riverbera, quindi i musicisti vengono costretti al sound acustico e a brani con salti tonali misurati. Il pianoforte è elettronico, ma su di esso Davide Calvi non incontra difficoltà e suona in scioltezza: Stefano Profeta conosce bene il contrabbasso e le sue cavate acustiche sono brillanti; quanto a Claudio Saveriano, beh, mette tutta la leggerezza necessaria usando molto spazzole e tamponi, anche sui piatti. Per quel che riguarda Joe, il cui sguardo sale spesso verso le volte a botte e scambia occhiate con pubblico e comprimari quasi a sottolineare lo status quo, usa toni morbidi, specialmente nei finali, con note lunghe, lasciando da parte il registro sovracuto. Joe apre il concerto con la composizione che, a metà anni cinquanta, ebbe grande successo col quintetto di Clifford Brown e Max Roach, da lui richiamati: What Is This Thing Called Love di Cole Porter. A seguire, per rimanere nel tema dell’amore Love Is a Many Splendored Thing di Webster-Fain. L’esecuzione di entrambi i brani, molto intimistica, presenta un Magnarelli che riesce a ovviare alla non presenza di una seconda voce, ma anche tutto il trio si dimostra alla sua altezza. Non può mancare un celebre standard del peso di I’ll Remember April di DePaul-Raye-Johnson, che era stato preceduto dalla composizione di Joe, New York J Funk, con alcune novità nel finale rispetto alla versione ascoltata il giorno prima. Ci si avvia alla conclusione del concerto con un ottimo Stella by Starlight, di Victor Young, tanto per rimanere in ambiente cinematografico e, al tempo stesso, ricordare Miles Davis; viene poi eseguito uno standard e infine Party Time di Lee Morgan a suggello. La conclusione, mettendo a confronto due concerti della stessa formazione in meno di ventiquattr’ore, permette di rimarcare quanto la musica jazz sia sempre un qualche cosa di irripetibile, anche se il programma in parte finisce di frequentare in parte gli stessi brani. Perciò viva il jazz dal vivo.