Foto: Gentile Concessione Ufficio Stampa Cremona Jazz www.cremonajazz.it
Kronos Quartet @ Cremona Jazz
Cremona, Auditorium Giovanni Arvedi – 21.5.2017
David Harrington: violino
John Sherba: violino
Hank Dutt: viola
Sunny Yang: violoncello
Due premesse necessarie, prima di passare al racconto di questa terza serata di Cremona Jazz 2017. La prima è che il concerto del quartetto californiano non si può minimamente definire come un concerto di Jazz. I quattro hanno suonato musica contemporanea, rigorosamente scritta, senza tracce di blues o swing o alcuno degli ingredienti riferibili alla tradizione musicale afro-americana. Chi si aspettava di riascoltare qualcuna delle tante rivisitazioni della letteratura jazzistica che i Kronos hanno effettuato (penso ai tributi discografici a Thelonious Monk e a Bill Evans) è rimasto deluso. La seconda è che la scelta d’invitarli alla rassegna cremonese è stata del tutto opportuna e legittima. Una rassegna importante, come vuole essere quella della città della liuteria, deve anche documentare quello che accade nel mondo variegatissimo della musica di ricerca dei nostri giorni. Il jazz, fin dalle sue origini è confronto, apertura mentale, curiosità. Una cosa è perpetrare la nefandezza (oramai diffusissima nei festival italiani) di invitare qualche pop star, altro è proporre un monumento della musica contemporanea come il Kronos.
La serata è cominciata con il concitato La Sidounak Sayyada, tratta dal repertorio del cantante siriano Omar Souleyman: sequenze melodiche ipnotiche ripetute ad libitum, inframmezzate da brevi interventi, scansione ritmica potente. Fina dai primi momenti del concerto venivano alla mente le parole con cui Brian Eno ha sintetizzato il carattere del minimalismo: «Un allontanarsi dalla narrazione in favore del paesaggio, dall’evento della performance verso lo spazio sonoro.»
Il secondo brano, di Rhiannon, un tema con variazioni di vago sapore country, ha rafforzato questa sensazione. Il concerto è proseguito dando all’ascoltatore l’impressione di ascoltare un’ininterrotta colonna sonora di un film imprecisato. È musica d’immagini, quella del Kronos. Questa sensazione, invero un po’ straniante, si è avvertita in maniera molto forte durante l’esecuzione di Flow, un pezzo di Laurie Anderson, basato su un’incantevole sequenza melodica sospesa e rarefatta, che s’interrompe bruscamente dopo circa tre minuti, lasciando l’ascoltatore a fluttuare nel vuoto. Una sequenza cinematografica, appunto.
Ovviamente questa sensazione si è accentuata quando il gruppo ha proposto l’ipnotica melodia di The Beatitudes, brano utilizzato da Paolo Sorrentino nel suo discusso film su Roma.
Unica concessione al repertorio “jazzistico” è stata una rilettura di Strange Fruit, intrisa di una sorta di algida, cupa malinconia.
Il concerto avrebbe dovuto concludersi con la cover di Baba O’Riley, scalpitante cavallo di battaglia degli Who. Ma un pubblico entusiasta ha richiamato il gruppo in scena in scena per ben quattro volte. Fra i bis una cover di Summertime di Janis Joplin, una lettura fedele, in cui la viola ha ripetuto passo per passo il solo di chitarra elettrica di quella celebre incisione. Anche qui, come in Strange Fruit la debordante emotività dell’originale è stata sublimata in un’atmosfera sospesa, rarefatta. Era, mi si passi il paragone, come se la voce della Joplin fosse filtrata da un qualche specchio.
Nitore melodico e distacco emotivo, potenza ritmica e astrazione, immediatezza e cerebralità. La musica dei Kronos, forse tutta la vicenda del minimalismo, si gioca su queste affascinanti contraddizioni. Incanta, ma non scalda, non commuove.