Biophilia Records – 2017
Linda Oh: contrabbasso, voce
Ben Wendel: sax tenore
Matthew Stevens: chitarra elettrica
Justin Brown: batteria
Fabian Almazan: pianoforte in Firedancer, Ikan Bilis, Midnight
Minji Park: janggu, kkwaenggwari in Mantis
Solido e senza compromessi, il nuovo lavoro di Linda May Han Oh raccoglie il testimone del percorso seguito dal jazz negli ultimi quarant’anni per trovare una sintesi personale e offrire un contributo ulteriore alla costruzione della scena musicale odierna. Senza rinnegare tradizioni e riferimenti, la contrabbassista sviluppa un disco complesso e articolato in undici tracce dense, animate da linee sovrapposte ma sempre controllate e ben dirette, melodie frastagliate e strutture composite. L’ambiente sonoro è un jazz tutto sommato acustico con la sola “concessione” della chitarra elettrica e di alcuni interventi – minimi e sobri – ottenuti tramite gli effetti elettronici: ritroviamo certe sonorità midwestern – nella conclusiva Western, appunto – e la ferocia ritmica del drum’n’bass di Speech Impediment, le suggestioni etniche di Mantis e le combinazioni melodiche intricate e progressive Perpluzzle. Elementi manipolati per cercare soluzioni e mettere a frutto le evoluzioni del linguaggio. L’impasto timbrico di sax tenore e chitarra elettrica, la presenza corposa della sezione ritmica, gli innesti del pianoforte e degli strumenti tradizionali coreani si appoggiano sulle possibilità contenute nelle composizioni e nella visione estetica complessiva di Linda Oh: l’impianto acustico rende possibile uno spettro dinamico più ampio e consente al combo di non prendere derive muscolari fini a sé stesse e, soprattutto, di mettere al centro le melodie e il loro sviluppo. Una scrittura esigente e intensa – piena di tensioni anche nei momenti più riflessivi e concepita su più livelli sonori – rende necessaria una applicazione continua da parte dei suoi interpreti: la dimensione acustica “costringe” perciò i musicisti ad essere reattivi e e concentrati su ogni singola nota.
Come viene spiegato nelle note di copertina, il titolo Walk Against the Wind – “camminare controvento” – deriva dalle performance del mimo Marcel Marceau. Naturalmente, però, contiene implicito la necessità di muoversi contro le avversità e il senso comune delle cose. L’ispirazione all’arte del mimo non viene, certo, dal silenzio tipico dell’esercizio, ma dalla riflessione sul singolo movimento e sulla necessità di renderlo credibile. Il mimo deve mettere in tutta la sua performance una “forza espressiva” tale da far immaginare allo spettatore quello che non c’è sul palco. Nella traduzione operata da Linda Oh, l’atteggiamento si rivela la chiave per ripensare i riferimenti in modo profondo: la contrabbassista e i suoi musicisti non rinnegano né vogliono stravolgere i concetti presenti nei lavori pubblicati, ad esempio, da Ornette Coleman, Pat Metheny, John Zorn o, per arrivare a giorni più vicini, da Donny McCaslin e Mark Guiliana, lavorano però per rendere credibile, efficace e sostanziosa la loro musica, senza ripercorrere in modo scontato i “canoni” consolidati.
Walk Against the Wind si rivela un disco consistente e capace di rivelare sfaccettature diverse ad ogni successivo ascolto. Complesso e melodico, al tempo stesso, sviluppa in maniera efficace gli spunti che lo animano senza cercare facili scorciatoie né colpi dall’effetto immediato.
Segui Fabio Ciminiera su Twitter: @fabiociminiera