Foto: Luca Labrini
Summertime 2017 @ Casa del Jazz
Roma, Casa del Jazz – Luglio 2017
A Luglio, per ogni appassionato di jazz, l’appuntamento a Roma ormai da qualche anno è ai giardini della Casa del Jazz con la sua rassegna estiva Summertime. Quest’anno il festival si presenta in grande stile, proponendo un cartellone da far invidia a quelli più rinomati e storici in giro per l’Italia e non solo. I nomi che lo compongono sono infatti un mix di artisti italiani ed internazionali di altissimo livello e di diverse generazioni e stili, fatto di ritorni e novità assolute per la gioia di un pubblico che nel giro di poco più di un mese ha davvero l’imbarazzo della scelta.
Ad inizio luglio il festival entra nel vivo: ad aprire la lunga serie di artisti americani invitati è il trio di Chris Potter in una formazione senza basso completata dagli ottimi James Francies alle tastiere e Eric Harland alla batteria. Fresco di stampa con l’ultimo lavoro targato ECM, il sassofonista di Chicago ha ripreso i brani racchiusi nel disco stravolgendoli e adattandoli a questa atipica formazione. Grazie soprattutto agli interventi alle tastiere del giovane ma già affermato Francies, il sound ha adesso una connotazione nuova e moderna ricca di groove che non scalfisce minimamente il fraseggio brillante e riconoscibile di Potter, uno dei più autorevoli sassofonisti post bop, che si conferma nuovamente anche un ottimo compositore: suoi infatti tutti i brani di una scaletta che non delude e che trova una nuova strabiliante veste in questo trio che osa avendone a ragione tutte le credenziali per farlo.
Delude invece, e non poco, l’atteso ritorno di The Bad Plus, un altro trio in genere molto amato che raccoglie in Italia sempre un buon seguito di fans. La scelta però di sostituire a fine tour il pianista Ethan Iverson, sancendone di fatto l’addio definitivo, pesa e non poco, con i tre che faticano a dialogare tra loro in un imbarazzo, non solo musicale, ben percettibile per tutto il concerto. I brani appaiono infatti subito fiacchi e senza quel coinvolgimento che ha contraddistinto le passate performance live del gruppo, qui invece diviso nettamente tra la ritmica da una parte e Iverson dall’altra, in un repertorio ormai consolidato che pare aver esaurito la sua freschezza iniziale.
Le caratteristiche sonorità ECM ritornano a metà luglio nei concerti del chitarrista austriaco Wolfgang Muthspiel e dello storico gruppo degli Oregon. A capo di un gruppo d’eccezione formato da Ralph Alessi alla tromba, Gwilym Simcock al pianoforte e dalla solida ritmica di Larry Grenadier e Jeff Ballard, Muthspiel in questa unica data italiana presenta i brani dell’acclamato disco Rising Grace uscito nel 2016 proprio per l’etichetta bavarese. In un contesto formato da tante stelle a spiccare è il suono freddo della tromba di Alessi, sostituto di Ambrose Akinmusire presente invece su disco, che con il suo fraseggio onirico riesce a far decollare i brani, comunque mai banali, di un leader che di contro non si distingue mai per originalità e carattere, rimanendo spesso dietro e al servizio di un gruppo che trova invece un buon equilibrio e un ottimo affiatamento per un giudizio tutto sommato positivo.
Un piccolo appuntamento con la storia lo lascia il ritorno sul palco romano degli Oregon, il quartetto capitanato dai polistrumentisti Ralph Towner, alla chitarra e pianoforte, e Paul McCandless ai fiati, completato da Paolino Dalla Porta al contrabbasso e Mark Walker alle percussioni. I quattro portano in dote le varie influenze dei musicisti che negli anni sono transitati da questa formazione e che hanno di fatto creato un suono unico che abbraccia jazz, avanguardia, world music fino a sfiorare la new age. Un sound originale che risulta ancora attuale e contemporaneo nonostante la celebrazione, con questo tour, del trentesimo album di una gloriosa carriera. Ma non è di allori che i quattro vivono, emozionando ancora nonostante il passare inesorabile degli anni. Towner dimostra di essere un autentico poeta attraverso un tocco sopraffino alternandosi tra chitarra, pianoforte fino all’uso sapiente dell’elettronica, trovando in McCandless la spalla ideale di sempre. I brani portano la firma di ognuno dei quattro, con inevitabile prevalenza dei due fondatori, in un bell’intreccio tra vecchi temi e composizioni più recenti con in mezzo un traditional come The Water Is Wide. Toledo di Towner conclude un concerto di una band ancor oggi incredibilmente unica che riesce nuovamente ad incantare il numeroso pubblico accorso.
Sonorità che traggono origini da ogni parte del mondo sono anche quelle proposte dal gruppo multietnico, ma ben più moderno, dei Bokanté, il nuovo progetto creato dal fondatore degli Snarky Puppy, Michael League. Una formazione composta da musicisti che provengono da quattro continenti in cui ognuno porta la propria origine e tradizione musicale. Un miscuglio di suoni che ha attirato l’attenzione per freschezza e originalità, ma che nella dimensione live, almeno nella tappa romana, non riesce mai ad emozionare. Le quattro chitarre presenti infatti appaiono fin da subito una sovrapposizione inutile di suoni, così come i tre percussionisti presenti, buoni più per un effetto scenico che di sostanza. Una buona impressione la desta la giovane cantante Malika Tirolien, ma è tutto l’insieme a non convincere mai appieno con dei frammenti a tratti banali e autocelebrativi di scarso valore, facendo rimanere ancor di più i dubbi sul successo ottenuto da queste nuove sonorità.
Nessun dubbio invece lascia la classe e lo stile di Bill Frisell, accompagnato da Tony Scherr al basso e da Kenny Wollesen alla batteria. Classe 1951, il chitarrista di Baltimora dipinge delle atmosfere da sogno dove improvvisazione e interplay si fondono in una concerto composto soltanto da quattro lunghissimi brani, terreno che consente ai tre di prendere via via nuove direzioni estemporanee dettate dal momento grazie ad un’intesa finissima. È un contesto ideale per Frisell, serio e concentrato sul suo strumento, abile e versatile come pochi a sfruttare appieno gli spunti dei suoi compagni di palco per inserire temi e fraseggi in un ambiente in cui il blues è il punto di partenza. Una musica per un viaggio ideale intorno a tutte le varie influenze della musica americana, splendida colonna sonora per sognare infiniti spazi incontaminati.
Chiusura in grande stile a fine luglio con il superquartetto capitanato da Charles Lloyd. Come sempre è avvenuto nel corso della sua carriera, il sassofonista di Memphis è fenomenale nella scelta dei suoi partner: negli anni 70 Keith Jarrett e Jack DeJohnette, nel decennio successivo Michel Petrucciani e poi Jason Moran fino ad arrivare a Gerald Clayton che raccoglie sul palco, senza paura, questa difficile eredità, completando il trio con Reuben Rogers al contrabbasso e Eric Harland alla batteria. Due generazioni a confronto che si completano e incantano fin dalle prime note con i quattro che ripercorrono le tappe più significative della carriera del prestigioso leader. Avanguardia e tradizione, psichedelia e classicità sono gli ingredienti fusi in un mix di estrema eleganza e gusto di una musica improvvisata dal sapore free che rimane però sempre gentile e a tratti dolce. Lloyd appare davvero in gran forma supportato dall’estro e dalla verve dei suoi ben più giovani musicisti, rispettosi ma estremamente determinanti di quel che rimarrà uno degli eventi di questa estate. Un concerto concluso da una meravigliosa versione di La Llorona, prima di una strameritata ovazione per uno dei più grandi musicisti di jazz in attività.
Lode alla Casa del Jazz ed ai suoi organizzatori che anche quest’anno con tanto coraggio sono riusciti a metter su un cartellone squisitamente jazz di primissimo livello senza dover sconfinare in altri territori musicali ben più commerciali, riuscendo nel contempo ad ottenere anche un ottimo successo di pubblico a testimonianza che, alla lunga, la qualità paga sempre.
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