Butch Morris e la Conduction a Parma Jazz Frontiere

Foto: la copertina del libro









Butch Morris e la Conduction a Parma Jazz Frontiere

Butch Morris è morto nel gennaio del 2013, nel pieno della sua esplorazione di un nuovo terreno comune fra scrittura, esecuzione e improvvisazione radicale; la conduction. Da qualche tempo raccoglieva le sue riflessioni e le sue esperienze su questo metodo di composizione istantanea, in vista della pubblicazione di un libro che facesse il punto su una ricerca durata quasi trent’anni. Ad aiutarlo in quel complesso lavoro di scrittura era stata una linguista italiana, Daniela Veronesi. A lei, Morris aveva chiesto, prima della sua morte prematura, di prendersi cura di quel progetto e di portarlo a termine.


Il libro è oggi una realtà, anche se è disponibile, al momento, solo in inglese. È stato pubblicato agli inizi di quest’anno. Si chiama “The Art of Conduction – A conduction Workbook” ed è edito a New York da Karma. Il nucleo centrale di questo volume, graficamente molto ben curato ed elegante, è costituito dal secondo, dal terzo e dal quarto capitolo dove Butch Morris espone il suo concetto teorico di Conduction e presenta al lettore i dati tecnici essenziali di questo innovativo linguaggio. Il quarto capitolo è corredato da bellissimi disegni di Massimo Golfieri, nei quali una silhouette di Butch illustra il vocabolario gestuale sul quale si basavano le sue performance. Intorno a questo nucleo gravitano importanti commenti testuali dello stesso Butch e di vari musicisti e studiosi. Fra questi hanno grande importanza quelli di Daniela Veronesi che si è sobbarcata il compito, certamente non facile, di editare un libro postumo, ricostruendo in pratica quanto non ancora critto dell’autore.


Nelle sue note introduttive Morris scrive più di una volta che il suo non è un tentativo ridefinire concetti musicali. È piuttosto un modello «in e per l’evoluzione» del linguaggio sonoro. Non tende a creare un nuovo sistema né tanto meno a porsi come una nuova forma di musica improvvisata, o una corrente jazzistica. Non è un genere, è un approccio che si rivolge tanto ai musicisti classici come agli improvvisatori. È un work in progress irrequieto, uno spazio intermedio fra scrittura musicale e interpretazione riempito dall’intervento del conduttore. È una pratica in continuo divenire. Questa meravigliosa apertura si è avvertita nella presentazione del libro avvenuta a Parma, nell’ambito di Parma Jazz Frontiere, nella quale la Veronesi ha interloquito con Alessandro Rigolli e ha mostrato al pubblico diversi filmati nel quale Butch approfondiva i suoi concetti. Molti gli spunti di riflessione suggeriti. Suonare in una situazione di conduction prevede un intenso sforzo creativo da ogni singolo musicista coinvolto ma, allo stesso tempo, mette in secondo piano la tradizionale figura del solista. Morris affermava di lavorare, come un architetto di suoni, solo alle strutture generali di un brano musicale lasciando agli strumentisti il compito di riempirle di contenuti. In realtà ogni evento del genere fa storia a se. Può accadere che in taluni casi l’impronta del conduttore sia più marcata. Lo si è avvertito quando, dopo la presentazione del volume, Roberto Bonati ha diretto la sua Chironomic Orchestra in un viaggio musicale pieno di fascino e di bellezze nel quale si avvertiva in maniera netta l’impronta compositiva del “progettista”. D’altronde il musicista parmigiano interagiva rapportava con gruppo d’interpreti da lui molto conosciuto. Il vero problema di Butch – ha dichiarato la Veronesi in una recente intervista – era il fatto «di non poter contare su un ensemble stabile e continuo, con cui esplorare a fondo tutte le possibilità (e i limiti) della Conduction».


Il dibattito, come si diceva un tempo, è aperto.




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