Foto: Archivio Fabio Ciminiera
Slideshow. Fabio Morgera
Jazz Convention: Così, a bruciapelo chi è Fabio Morgera?
Fabio Morgera: Un giramondo che ha messo finalmente la testa a posto, tuttavia è ancora costantemente ispirato a suonare, dirigere, comporre e arrangiare musica… grazie a Dio.
JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica? E del jazz?
FM: Alle elementari odiavo la musica perché l’associavo solo al solfeggio a cui ci obbligava la maestra. È buffo che poi sia diventato professore di Ear Training e solfeggio americano (moveable DO), di cui – ora – sono un appassionato promulgatore. Il primo jazz che ricordo l’ho visto in TV all’età di quindici anni, Louis Armstrong, Lionel Hampton, ma anche lo sceneggiato “Jazz Band” di Pupi Avati. Mi piacque enormemente!
JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?
FM: Da ragazzino amavo soprattutto le musiche etniche, da quelle europee a quelle andine, e poi il rock, quindi ero interessato a strumenti come chitarra e percussioni; però poi mi risolsi a scegliere la tromba in quanto si può suonare più facilmente con una mano sola. Credo sia stata proprio questa scelta a portarmi ad ascoltare più jazz, ma fu vero amore, perché ricordo che quando scoprii Charlie Parker accantonai tutti i miei dischi di rock… Più avanti ho solo seguito la mia Musa, che mi ha portato a voler assorbire il più possibile la musica afroamericana da vicino, cioè a Los Angeles, Boston, e infine a New York dove ho vissuto la bellezza di ventitre anni e dove ho avuto l’opportunità di suonare con grandissimi musicisti e imparare da loro.
JC: Ma cos’è per te il jazz?
FM: Non è solo una musica improvvisata ma è anche storia e cultura del popolo afro-americano, un popolo che ha in pratica regalato al mondo intero la sua bellissima tradizione musicale. Anche se non sei americano o afroamericano, puoi far parte di questa storia.
JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ al tuo jazz?
FM: Il critico statunitense Scott Yanow mi ha definito “eccellente trombettista post-bop” nel suo libro “Trumpet Kings: The Players Who Shaped the Sound of Jazz Trumpet”. Per me è stato un onore esser stato anche solo menzionato?, ma lui mi dedica perfino qualche paragrafo spiegando che ho uno stile flessibile, e che ho iniziato a guadagnarmi riconoscimenti grazie alla mia versatilità. Credo di potergli dare ragione in quanto suono dal Bebop al Free Jazz , dal Cool Jazz al Funk , insomma amo tutta la storia del jazz e tutta la Black Music, e se c’è un comune denominatore in tutto quello che faccio è sicuramente il cercar di raggiungere quei momenti di elevazione spirituale collettiva che poi credo sia lo scopo di molta musica di derivazione etnica e popolare.
JC: Tra i dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?
FM: No, il disco più bello è sempre il prossimo 🙂
JC: E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?
FM: Mah, quelli che ho consumato, come “My Funny Valentine” di Miles Davis o “Mean Greens” di Eddie Harris, che ce li porto a fare se li conosco a memoria? Forse mi porterei qualche disco dell’orchestra di Dizzy Gillespie che non ho ancora ascoltato (se esiste), o di Monk o di Joe Henderson, li andrei sul sicuro.
JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?
FM: Di solito i grandi maestri di musica sono anche maestri di vita. I miei sono stati Butch Morris, Donald Byrd, Eddie Henderson ed Enrico Rava.
JC: E i solisti che ti hanno maggiormente influenzato?
FM: Direi Pops, Miles, Woody, Chet, Freddie, Fats, Dizzy, Kenny Dorham, Faddis, un po’ tutti i trombettisti, ma anche altri strumentisti e arrangiatori come i giganti John Coltrane, McCoy Tyner, Duke Ellington, Gil Evans, Oliver Nelson, George Russell. Oltre ai miei maestri su citati naturalmente.
JC: Qual è per te il momento più bello della tua lunga carriera di musicista?
FM: Beh fu emozionante quando B.B. King mi fece i complimenti ad un festival in Giappone (suonai con i Groove Collective prima della sua band). Ma se intendi momenti musicali, allora quando Clark Terry mi invitò a suonare con lui tutto il suo ultimo set al Village Vanguard. Oppure quando al Birdland di New York, Enrico Rava si esibì col suo gruppo stellare comprendente Paul Motian, Mark Turner, Bollani e Granadier e mi invitò a suonare l’ultimo brano con loro. Suonai un assolo piuttosto vivace e più tardi Stefano mi disse nel suo toscano affettato: «O che tu gli hai fatto a Paul Motian?», giacché fino all’ultimo brano Motian aveva suonato abbastanza tranquillo, mentre effettivamente si scatenò non poco accompagnando il mio assolo… spero fosse divertito e non incavolato! È stata una grandissima perdita, Paul Motian. A proposito di batteristi, fu incredibile per me suonare con Tony Williams, ospite di Groove Collective, al benefit per la ricerca sull’AIDS di New York “Red, Hot and Cool” nei primi anni ’90. Oppure suonare con Billy Higgins i miei primi anni a Los Angeles. Ripensandoci i ricordi bellissimi sono parecchi, sono stato molto fortunato a conoscere e a suonare con alcuni dei miei idoli.
JC: Come vedi la situazione del jazz in Italia?
FM: Confido nel futuro dei Conservatori di Musica dove ci sono tanti bravissimi insegnanti, molti di loro veri e propri protagonisti della scena italiana e conosciuti anche all’ estero. Quella di riuscire a far inserire le discipline di jazz nei conservatori fu una battaglia vinta dal Maestro Giorgio Gaslini, che fu il primo titolare dei corsi di jazz al Conservatorio S.Cecilia di Roma (1972-73). Fu Gaslini stesso che molti anni dopo disse di avermi “scoperto” (come aveva scoperto molti giovani talenti italiani), e io sono davvero onorato di aver intrapreso giovanissimo la strada professionale nel suo Ottetto. Prova a guardare la copertina di “Monodrama” e capirai cosa voglio dire. È una battuta ovviamente…
JC: Rispetto all’America – dove hai vissuto – quali sono le principali differenze nel jazz?
FM: L’etichetta Jazz è ormai un calderone dove confluiscono tutti i tipi di influenze, principalmente musiche etniche o World Music, ma anche musica classica europea e indiana, oltre ad altri tipi di Black American Music e Latin. Direi però che negli USA, in genere, si rimane sul Mainstream o Straight Ahead come si dice, oppure si va verso il Jazz-HipHop, la Fusion o, nei casi meno felici, nel cosiddetto Smooth Jazz. In Europa invece, e mi sembra naturale, c’è molta più influenza europea, che ha iniziato a farsi sentire nel jazz un po’ da quando è iniziata la produzione ECM, cioè dagli anni ’70. In Italia poi si notano matrimoni insoliti tipo Jazz-Opera o Jazz-Progressive British Rock e chi più ne ha più ne metta, molto di più di quanto accada negli USA. Per me va anche bene, finché questi esperimenti sono proposti da musicisti che hanno conosciuto a fondo la storia della musica afroamericana, perché per sapere dove andare bisogna anche sapere da dove si viene. Inoltre spero non si diventi troppo nazionalisti, perché il vero Jazz è una musica che vuole unire tutto il mondo, non dividere, e che presenta un linguaggio afroamericano in origine, diventato poi universale.
JC: Cosa stai progettando a livello jazzistico per l’immediato futuro?
FM: Ricollegandomi alla risposta precedente mi auspico che nei nostri Conservatori si studi sempre di più la storia del jazz, e che in futuro si abbiano magari classi specifiche sulla musica di New Orleans, sulle orchestre da ballo, sul Bebop ecc. ecc. perché’ credo ce ne sia gran bisogno. Nel mio piccolo ho dato inizio ad un paio di progetti di carattere filologico ; il primo , dedicato al Cool Jazz , è il quartetto chiamato con umorismo tipicamente toscano “Botte di Cool”, che condivido con Dario Cecchini, Alessandro Fabbri e Guido Zorn, di cui è appena uscito il primo album “Speak Low” uscito per la Drycastle Records. Il secondo è Bop Co-op, che è innanzitutto un repertorio di brani Bebop da me accuratamente trascritti dagli originali, cioè dalle registrazioni effettuate nel dopoguerra da Dizzy Gillespie, Charlie Parker, Bud Powell e dagli altri alfieri del Bop. Il repertorio è condiviso da alcune “Cooperative del BeBop” sparse sulla penisola italiana e più precisamente ad Alessandria (Bop Co-op NW diretta da Paolo Pellegatti), a Bologna (Bop Co-op Emilia – Emiliano Pintori), a Padova (Bop Co-op Veneto – Danilo Memoli e Jesse Davis), a Roma (Bop Co-op Lazio – Stefano Sabatini), e a Firenze (Bop Co-op Florence – Francesco Maccianti). Bop Co-op estrapola gli aspetti più’ istrionici e leggendari del Bebop, cioè quelli che hanno ontribuito a farne un “cult”: tempi vertiginosamente veloci (non sempre ovviamente), arrangiamenti a effetto con frequenti stop-time, divertentissime parti cantate in coro e il tipico “scat” (l’improvvisazione vocale praticata dai “bopper”). La mia musica guarda comunque avanti, e mi piace proporla tramite la Natural Revolution Orchestra, un large ensemble per cui scrivo composizioni ed arrangiamenti originali e che ho il privilegio di dirigere. Comprende alcuni fra i migliori jazzisti dell’area toscana come i sassofonisti Nico Gori, Stefano “Cocco” Cantini e Dario Cecchini , il pianista Francesco Maccianti, il chitarrista Riccardo Galardini, il bassista Guido Zorn, il batterista Andrea Melani. Il nostro primo disco è uscito in allegato al numero 100 della rivista Jazzit e un secondo disco è in preparazione e uscirà nel 2018. Con la Natural Revolution Orchestra ho il piacere di portare avanti, oltre alla mia musica di impronta più contemporanea, la “tecnica d’improvvisazione guidata” di Butch Morris, cioè la Conduction, che utilizziamo anche all’interno di strutture pre-esistenti.
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