Dodicilune Dischi – Ed 386 – 2017
Alvin Curran: pianoforte, Shofar, computer
Giancarlo Schiaffini: trombone
Alipio Carvalho Neto: sassofono, fischietti, percussioni
Sergio Armaroli: vibrafono, tamburo parlante, tam-tam, percussioni
ospiti (in Max’d Oud; Sequence 1; Soft Shoes)
Marcello Testa: contrabbasso
Nicola Stranieri: batteria
Mai davvero passato agli archivi, ancor meno alle retrovie, dell’eccentrico (e a suo modo modesto) testimone e fattivo attore della grande avventura dell’innovazione in musica, non si può dire che non siano passati messaggi e transiti: del visionario ideatore di Canti e vedute del Giardino Magnetico (ma la discografia complementare e successiva è estremamente ricca ed articolata) si conferma l’impegno espresso verso «la valorizzazione e la dignità professionale del comporre musica non-commerciale come parte di una personale ricerca di future forme sociali, politiche e spirituali (…), in una serena dialettica tesa all’incontro», caratterizzato nelle eterogenee forme da «un volatile mix di lirismo e caos, struttura e indeterminazione».
Ne perviene ora in forma di fattivo tributo il “progetto Fake Book”, direttamente correlato al personale quaderno privato di appunti musicali redatto, aggiornato e consultato in oltre cinque decadi, supporto grafico di innumerevoli significati, valenze e formule stilistiche, come dal vastissimo campionario in note di copertina, esponenti una ridda di rievocazioni personali e para-storiche.
Di tali incalcolabili materiali si tenta in forma extra-selezionata una rappresentazione discografica, a partire da quanto esposto nel corso delle Biella Sessions; certamente ammettendone il carattere sommario di “candida autobiografia sonora” (così come l’autodichiarato carattere di «reboot concettuale verso uno stato primigenio d’essere in arte»), l’impianto registra (ma non denuncia particolarmente) le sovrapposizioni generazionali: la reunion a gestazione non certo frettolosa tra due grandi testimoni dell’avanguardia, con non minime implicazioni storiche, e l’aggregazione di due comprimari dalla più recente discesa in campo, ma non per questo meno organici alle ragioni del progetto (oltre all’aggregazione di un’italica coppia ritmica in alcune tracce).
Il lacerante (e s’immagina d’arduo dominio timbrico) Shofar ebraico, millenario corno rituale (e già al centro di un recente lavoro con quartetto d’archi) è tra le punte di un instrumentarium originale e pugnace; così, il composito tessuto della band, oltre alle tastiere acustiche e il laptop del veterano, arruola alla pari i barriti d’ottone del multilingue decano Schiaffini, oltre alla percussione fluida e alle ritmiche composite del ricercatore Armaroli, completandosi con gli estrosi apporti d’ancia e timbro etnico del musicologo e performer brasiliano Carvalho Neto.
Esteso peraltro il panorama formale dispensato nell’ampia raccolta: concedendosi ampia libertà espositiva in una sequenza estesa dalla kermesse di Max’d Out a plaghe più private e di netta impronta lirica tra cui l’introduttiva e notturna Under the Fig Tree, cimentando la formazione in apparentemente meno strutturati passaggi (tali le cinque Sequence), abbandonandosi in solo al pianismo intenso della privata A Room in Rome, completando la sequenza con la pugnace elettroacustica nell’elaborata The Answer is…, lo stralunato mainstream di Don’t throw that book at me e Soft Shoes, fino all’apparato swingante di Field it.
Se ne trae una certa indipendenza tematica, né appare acquiescenza di render conto ad alcun definito canone formale, orientando di fatto le maggiori energie verso una serie di passaggi instabili, di alterno carattere polemico, in cui oltre alle interazioni e alla dialettica organiche alla tempra espressiva dei partecipanti, s’incorporano spunti storici quali la cageana radio-music ed una funzionale (e non nostalgica) esposizione della musica su nastro, confermando la connessione piuttosto organica fra vari momenti dell’innovazione in musica. Non datati, ma probabilmente non più afferibili (anche a ragion di ciò) all’ambito “sperimentale” stricto sensu, i materiali del collettivo risuonano comunque del calore e del plasma creativo dei “formidabili” e fondativi anni dell’avventura dell’originale avanguardia.
Privato, ma vocazionalmente aperto alla condivisione, il “Falso Libro” di Alvin Curran s’insedia con merito nella recente discografia di qualità, diremmo non tanto per le risultanze sonore quanto e meggiormente per le grandi implicazioni concettuali e creative, palesando (e non soltanto a margine) i crescenti meriti dell’etichetta salentina nell’annettere una sempre più abitata sezione avant-garde, in questo caso graziata dal valore aggiunto di forte partecipazione storica e importante valore musicologico.
Link correlato: www.alvincurran.com