Smeraldina-Rima – LP / CD 32 – 2016
Ruben Machtelinckx: chitarra acustica, chitarra baritono, banjo
Thomas Jillings: sax tenore, sax in do, clarinetto alto, synth
Nils Økland: Hardanger
Niels Van Heertum: euphonium, flicorno
Qualora ci si volesse avventurare per tracciati non particolarmente battuti dell’avant-jazz – ammesso e difficilmente concesso che il genere abbia dato sentore di saturazione – potrà venire in soccorso una stimolante proposta dall’insolita line-up belga-scandinava, di cui non ci suona affatto nuovo il nome di Nils Økland, così come iniziamo a prender confidenza con i giovani talenti della scena belga.
La frequentazione dei quattro vanta peraltro un complesso rodaggio, stante la rotazione dei vari strumentisti entro formazioni di contatto, ed in particolare i due apripista Machtelinckx e Jillings, che dopo la formula in duo dell’esordio hanno progressivamente accresciuto la combinazione strumentale.
Al terzo cimento discografico della formazione aperta Linus, la corrente performance certamente avverte l’influenza stilistica del maestro norvegese di violino Hardanger; a questi s’associa il giovane sperimentatore Niels Van Heertum, del quale abbiamo recentemente apprezzato le coraggiose meditazioni in solo su ponderosi strumenti d’ottone. Dal loro canto i fondatori si confermano essere un insolito praticante di plettri (particolarmente del banjo) nel caso di Machtelinckx, ed un alfiere di ance di cui non si può disconoscere l’imprinting dei più nordici esponenti dell’arte del sax e dei legni nel caso di Jillings .
Insomma, la formula che già non s’annuncia con usuali premesse esplicita i propri tratti d’originalità nella complessiva resa, insolitamente toccata da un confortevole sound, tratteggiato da tempi estremamente dilatati e dal carattere per lo più ameno degli strumenti a corda: se lo Hardanger, così come i sassofoni, non sempre traccia linee melodiche nette, si manifesta caldo e familiare anche nei suoi innumerevoli abbozzi figurativi, doppiato dalle linee dilatate degli strumenti a plettro; analogamente, la lunga tenute di note e sonorità dei fiati, particolarmente di euphonium e clarinetto, delinea complesse volute di misterioso sentore.
Prodotto di una session improntata alla ricerca istantanea ed all’empatia esecutiva, Felt like Old Folk gioca già nel titolo su una curiosa omofonia (“Felt”) tra lingua inglese, fiamminga e norvegese; i molti, e differenziati, richiami etnici pongono l’ascoltatore entro un calda, brumosa (e a tratti curiosamente rassicurante) radura sonora conformata da un interplay dai meccanismi suggestivi e non poco enigmatici, molto affine nelle sue tessiture alle interazioni degli elementi naturali.
Radi segnali dal post-free, tutto un importante patrimonio tradizionale nord-europeo (frettolosamente e per comodità di riferimento da molti connesso per analogia a un non ben focalizzato “pop acustico inglese”), non sono che alcuni degli elementi “riconoscibili” entro un linguaggio comunque ineffabile da cui affiorano dei tratteggi di spirito jazzy, anch’esso ben poco utile nella collocazione di un sound nel complesso sfuggente.
Con il lussuoso valore aggiunto di ben sette opzioni grafiche dei due supporti fisici (quando non s’incappi nella gestione logistica quantomeno approssimativa della label), l’album dona un notevole acting di «musicisti che suonano d’istinto, senza preparazione o strategie» e sembrano puntare verso le più arcaiche radici della ritualità comunicativa.
Bilanciando il loro stile comunicativo tra il lusso un po’ spavaldo dell’indeterminato e una radicale naturalezza, i quattro conquistano con diritto una netta identità creativa, per una (e notevole) volta aliena da additabili sovrastrutture o mistificazioni.