Dinosaur – Wonder Trail

Dinosaur - Wonder Trail

Edition Records – EDN1111 – 2018





Laura Jurd: tromba, sintetizzatori

Elliot Galvin: sintetizzatori

Conor Chaplin: basso elettrico

Corrie Dick: batteria






A due anni di distanza da Together, As one, il quartetto britannico Dinosaur torna con un lavoro davvero sfaccettato e curioso. In qualche modo, i quattro musicisti evitano un confronto diretto con il materiale presente sul precedente lavoro per proporre una sorta di operina singolare, una vera e propria suite di teatro musicale, giocata su elementi elettronici, su atmosfere sospese e su cambi di scena inattesi. Un disco estremamente conciso nei suoi quasi trentasette minuti ma, allo stesso tempo, vario e ricco: le composizioni della trombettista Laura Jurd sfuggono immediatamente ad ogni tipo di definizione e di generi musicali. Il materiale diventa il terreno ideale per una formazione che si pone in maniera del tutto naturale alla convergenza dei vari fili tracciati dalle storie di jazz, rock, folk, musica elettronica e sperimentazioni radicali: il quartetto, soprattutto, compie questa operazione con leggerezza e curiosità, senza dare nulla per scontato e senza smettere mai di cercare nuove risposte.


La combinazione di una robusta quantità di spunti sviluppati, attraversati o anche solo accennati nella brevità complessiva di Wonder Trail porta alla definizione di “operina” data sopra: un compendio di possibilità in cui vengono contemplati davvero ogni tipo di linguaggio e sonorità, dove ogni strada è praticabile, dal riff potente al ritmo incalzante, dalla filastrocca infantile alle aperture modali. Il tutto però viene tenuto insieme dal senso del racconto: il filo conduttore diventa perciò la firma del quartetto, la capacità di Dinosaur di “imporre” uno stile personale, la capacità di plasmare la musica con soluzioni sempre riconducibili alla particolare visione estetica del gruppo. Laura Jurd, Elliot Galvin, Conor Chaplin e Corrie Dick dimostrano tutta la loro solidità nel posizionare con sicurezza i vari elementi: il racconto si concretizza nota dopo nota, il percorso si definisce sotto gli stessi passi dei quattro musicisti. Un vocabolario capace di ampliarsi ad ogni frase, una massa sonora tanto articolata quanto tenuta in ordine da un atteggiamento teatrale e narrativo ancor prima che specificatamente musicale.


La conseguenza di un approccio simile è nella ricerca costante del risultato finale, è nella prevalenza degli impasti timbrici e della costruzione della voce del gruppo rispetto al virtuosismo del singolo. Le dinamiche abituali del quartetto jazz vengono affiancate – ma si potrebbe dire anche rilette, ridefinite, travolte o addirittura spazzate via – da una idea musicale del tutto diversa da quella incontrata di solito: lo dicevamo già sopra, gli usuali confini tra i generi vengono accantonati a favore di una spirito trasversale che adopera questa massa sonora dando peso e sostanza ad ogni nota, cercando sempre riferimenti incrociati che possano aprire nuove connessioni. E anche la presenza fortemente caratterizzante dei sintetizzatori risponde alla necessaria ricerca di un amalgama, di un filo conduttore capace di mantenere il senso complessivo pur nei velocissimi spostamenti proposti dalla musica. Elliot Galvin si rivela ancora una volta un pragmatico fantasticatore, capace di tracciare legami sorprendenti tra suoni, timbri e frasi. È il quartetto nel suo insieme però che applica, con precisione sempre puntuale, le capacità tecniche per padroneggiare la materia proposta e indirizza gli ascoltatori nello sviluppo del disco grazie ad una chiara visione generale di intenzioni e obiettivi.


Wonder trail – “sentiero delle meraviglie” nella traduzione italiana – è, senz’altro, il secondo passo del sentiero davvero intrigante tracciato dal quartetto britannico: un percorso volutamente rivolto ad andare oltre i concetti già stabiliti e consolidati, con l’ambizione di spiazzare gli ascoltatori nelle certezze acquisite e, possibilmente, di sorprenderli. E, se la traduzione diretta potrebbe suonare per certi versi un po’ troppo autocelebrativo, resta diffuso sempre per tutto il disco un fondo di humour tipicamente britannico a smussare gli spigoli e a dare una ulteriore connotazione al lavoro di Dinosaur.





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