Human See, Human Do, il nuovo progetto discografico di Luca Dell’Anna

Foto: la copertina del disco Human See, Human Do










Human See, Human Do, il nuovo progetto discografico di Luca Dell’Anna

Human See, Human Do è il titolo del nuovo disco del pianista Luca Dell’Anna. È un lavoro in quartetto realizzato con Massimiliano Milesi, Danilo Gallo e Alessandro Rossi, conposto da brani originali firmati dallo stesso pianista. Gli abbiamo chiesto di parlarci del suo disco ma anche del suo essere jazzista, compositore e leader.



Jazz Convention: Luca Dell’Anna, quando e come hai scoperto il jazz?


LDA: Se vogliamo intendere l’improvvisazione in senso lato, da sempre. Fin da quando ho ricevuto in regalo la prima tastiera giocattolo. A sette anni ho cominciato a improvvisare senza sapere cosa stessi facendo (cosa che più o meno succede anche oggi), e per fortuna lo studio del pianoforte classico arrivato quattro anni dopo non mi ha fatto perdere il vizio. Faccio fatica a datare l’incontro con la musica afroamericana e latinoamericana. Insieme a mio padre ascoltavo fin da piccolo Ray Charles, Harry Belafonte, i Platters e Perez Prado. L’amore per il jazz è arrivato gradualmente passando attraverso il blues e il soul. Mi sono innamorato del film “The Blues Brothers” quando è uscito. Ho ascoltato la colonna sonora un milione di volte. Poi la vera conversione, più consapevole, l’ho avuta intorno ai sedici anni con la scoperta di Jimmy Smith, Michel Petrucciani e altri miei eroi di quel periodo. A sedici anni ho anche preso le prime lezioni con Bruno Cesselli, non più di due o tre incontri che mi hanno letteralmente illuminato e cambiato il modo di concepire il pianoforte e la musica in senso più ampio. Bruno, come poi in seguito un’altra grandissima mente come Andrea Beneventano, hanno radicato in me la fiducia in quella che chiamo “la catena dei maestri”: un bravo educatore ha veramente il potere di accendere una scintilla e provocare cambiamenti enormi nella vita e nella visione di un allievo. Il lavoro dell’insegnante è un lavoro maledettamente serio e deve essere affrontato con grande responsabilità (come fa l’Uomo Ragno). Se sapessi di aver generato in un allievo la metà dell’energia, chiarezza mentale e spinta creativa che Andrea e Bruno hanno fatto sorgere in me, potrei dire di aver ottenuto qualcosa.



JC: Perché la tua scelta è caduta sul pianoforte e quali sono i tuoi maestri o meglio punti di riferimento?


LDA: Non saprei, ho ricordi molto lontani di quando scorrazzavo per i negozi di giocattoli alla ricerca delle tastiere Bontempi. Devo aver rotto parecchio le scatole ai miei. Quando mi hanno regalato la prima tastiera probabilmente hanno pensato «così la smette!». E invece… Comunque i maestri o punti di riferimento sono molti; in realtà fatico a dire che preferisco uno all’altro. Ti posso dire che il mio primo vero amore pianistico è stato Michel Petrucciani: quando avevo sedici anni guardavo le videocassette dei suoi concerti prima di studiare. Questo mi dava l’impressione di suonare meglio potenza dei neuroni specchio -. Petrucciani era un modello di approccio alla tecnica, al tocco e alla scansione del ritmo e osservarlo mi faceva tenere un atteggiamento più “centrato”. Lo stesso mi succede ancora oggi con Gonzalo Rubalcaba, ma anche con Glenn Gould o Brad Mehldau. Ma ripeto, i maestri sono miliardi e si fatica a sceglierne uno.



JC: La tua formazione musicale ti fa sentire più un jazzista di scuola europea o americana?


LDA: Domanda non facile. La mia formazione, i miei ascolti e i miei modelli sono di scuola americana e afroamericana, così come i miei primi amori, arrivati quasi contemporaneamente a quelli latinoamericani. Se e quanto la matrice afroamericana poi traspaia nella mia produzione, non saprei in che misura. Sicuramente in modo non esplicito o didascalico.



JC: Tra le tue collaborazioni importanti, quale ti ha lasciato il “segno”?


LDA: Senza dubbio quella con Adam Rapa, gigantesco musicista che in Italia non gode della popolarità che merita, artista e sapiente a tuttotondo che con una semplice conversazione è capace di aprire porte a nuovi percorsi mentali ed elevare i tuoi livelli di consapevolezza. Fra gli italiani Walter Calloni è per me un grande esempio di onestà personale e musicale, il suo modo di suonare e la sua vita incarnano la lezione di rimanere sempre al servizio della musica prima della volontà di dimostrare la propria autoaffermazione. Ma ciascuna delle persone con cui ho lavorato e lavoro è per me una fonte di grande insegnamento. Tenendo le antenne bene alzate, tutti hanno da insegnarti qualcosa, specialmente quando pensano di non averlo.



JC: Che ricordi hai della tua prima registrazione?


LDA: Dipende a che livello di “don’t-try-this-at-home” ti vuoi fermare… Ci sono i magnifici demo con il gruppo metal nelle salette fetide della Ferrara dei primi anni ’90 a cui ho affettuosamente regalato parte della funzionalità dei miei timpani; i demo con il gruppo cover dei Tower of Power qualche anno dopo (custodisco l’audiocassetta a casa come il Santo Graal). Oppure il primo disco in cui sono stato chiamato a registrare da un artista straniero, si trattava di “Simple Graces” di Michelle Chappel nel 2000. In studio si respirava il relax, l’energia e l’apertura a sperimentare e a trovare proprie idee. Viceversa noi a volte tendiamo a registrare con la pistola puntata alla tempia, ad avere un atteggiamento eccessivamente orientato alla performance. Forse oltreoceano hanno digerito meglio la lezione di Kenny Werner….



JC: I tuoi due precedenti dischi da leader, Mana e Symbiont sono realizzati in trio. Mana è ricco di sonorità latin e lascia intendere che uno dei tuoi pianisti preferiti è Danilo Perez; mentre Symbiont è più un disco di ricerca, dal carattere post bop venato di contemporaneità e libertà creative…


LDA: Sì, Danilo Perez senz’altro, anche se il mio vero amore della vita è Gonzalo Rubalcaba. E se cominciamo a parlarne qui non mi fermo più. La musica e cultura cubana hanno avuto un’influenza enorme nella mia formazione, infatti “Mana” il mio primo disco voleva esplicitamente essere modellato su quel mondo, da cui la scelta di Israel Varela alla batteria. Symbiont è il risultato di un intento compositivo meno “di genere”, in cui le melodie hanno seguito il loro proprio senso e logica interna senza rispondere a stilemi. Per questo motivo, ancora oggi non saprei proprio dirti di che genere è. Anche i brani che risultano essere più inquadrabili in un linguaggio specifico, come Lapse o Cohesion, in parte The Turk, a posteriori li avrei visti ritmicamente più liberi, meno didascalici.



JC: Human See, Human Do, tuo ultimo lavoro, ha un assetto più largo, nel senso che hai aggiunto un sassofonista ed è completamente diverso dai tuoi dischi precedenti…


LDA: Questo quartetto è una creatura a parte. Rispecchia profondamente l’interazione musicale, ma soprattutto umana e culturale che c’è fra noi quattro. Ho cercato di catturare almeno in parte quello che succede suonando sul palco, o semplicemente chiacchierando fra di noi. Avere tante cose in comune, dall’umorismo ai riferimenti culturali, e non soltanto riferimenti musicali ma a più ampio spettro cinematografici, letterari, filosofici, ha un’importanza enorme nel creare un suono di gruppo che sia coeso e significante. Nel registrare questo disco ho cercato di suonare il meno possibile, di pensare il meno possibile al “punteggio-performance” e di immergermi di più negli altri tre lasciando spazio, interazione e respiro. Ovviamente non ce la si fa mai al 100%, ma ci si prova. Mi è stato detto da un collega che questo «non sembra un disco di un pianista», e viste le mie intenzioni, lo prendo come un ottimo complimento.



JC: Ci spieghi quali significati e progettualità ci sono dietro il titolo visto che si ha la sensazione di un disco che ha avuto una gestazione importante…


LDA: La gestazione di questo disco è stata forse la più travagliata di sempre. Ci ho dovuto mettere tutta la mia cocciutaggine per farlo arrivare alla stampa, dal momento che ogni mese si presentava un inconveniente nuovo a minarne l’uscita, come i mostri a fine livello dei videogiochi. Il titolo è il ribaltamento del modo di dire americano “Monkey See, Monkey Do”, lo dice Julius ne “Il pianeta delle Scimmie” del 1968. E da qui arriva anche la scimmia in copertina. L’idea del titolo mi è arrivata in un momento di cortocircuito a ricordarmi che per arrivare alla fine dovevo agire e basta, togliendo di mezzo dubbi, paranoie e tentennamenti. E questo si collega al tema a me caro della Mente-Scimmia, secondo lo Yoga Vasistha il carattere fondamentale del nostro pensiero cosciente, l’ostacolo principale fra noi e la creatività che ci impedisce il realizzare le cose e ci condanna a semplicemente immaginarle, zampettando qua e là fra un pensiero inutile (o improduttivo, o nocivo) e l’altro come una scimmia. Ecco da dove arriva anche il brano “Monkey and the Brain” (in realtà è collegato a “Pinky and The Brain” – in italia “Mignolo col Prof”: «Cosa facciamo stasera? Conquistiamo il mondo»). E così via, c’è anche Sankhara, che è sempre secondo lo Yoga originario qualsiasi formazione concreta della mente, che si solidifica fino a diventare un macigno che poi ci portiamo incatenato ai piedi e ci impedisce di far fluire la nostra vita liberamente. Può essere uno shock, un rancore, ma anche semplicemente un desiderio troppo ingombrante o incontrollabile. O semplicemente e più comunemente, un ego gigantesco. Tutte robe inutili che dobbiamo lavorare assiduamente per dissolvere. E già un grosso lavoro è arrivare a capire che dobbiamo dissolverle.



JC: In Human See, Human Do lavori molto sull’improvvisazione e l’interplay usando il tema solo come punto di riferimento per partenze e arrivi…


LDA: Sì, quello che mi interessa, specialmente sul palco con questa formazione, è di creare un calderone in cui ognuno possa gettare i propri ingredienti e dire la propria con libertà totale, e portare avanti una massa sonora non necessariamente divisa “a turni”. In questo magma il tema spesso è il culmine di un percorso, o una chiamata all’ordine, piuttosto che una semplice esposizione. Come dicevo prima, suonare con questo quartetto è un piacere esattamente quanto lo è chiacchierare o scherzare insieme, e la dinamica è la stessa, giocando a volte a telefono senza fili, a volte a scacchi, a volte a riempirci di botte solo per il gusto di farlo.



JC: Gli otto brani che fanno parte di Human See, Human Do sono tue composizioni. Come nascono, a cosa ti ispiri quando componi, hai già in mente a quali musicisti farli suonare?


LDA: I brani sono nati con l’intento preciso di farli suonare a questo quartetto. Scrivendo avevo in mente il modo in cui Max, Danilo e Ale avrebbero potuto rendere una certa idea. Ho cercato di stare il più in disparte possibile con la penna, creare delle cornici e dargliele in pasto. Come nel caso della prima parte di “Sector n.4”, che altro non è che una specie di flipper ritmico: un manuale di istruzioni che dice «Ok, suoniamo questa nota, questa e questa. Per il resto, liberi tutti e ci vediamo dall’altra parte quando il Sax decide che è ora». La cosa bella è che in certi episodi, di atmosfere anche diametralmente opposte, lasciando carta bianca a chi dirige il gioco, ho potuto rendere esattamente la pennellata di colore che avevo in mente, semplicemente assegnando il ruolo all’interessato e dicendogli: «qui vai in questa direzione», come nei picchi più estremi di destrutturazione di Sankhara, in contrasto a pochi minuti prima con l’atmosfera cameristica e composta dell’esposizione del primo tema. Tutto in mano al sapiente Milesi con assoluta fiducia nel saperlo capace di ricoprire senza macchia entrambi i ruoli



JC: Massimiliano Milesi, Danilo Gallo e Ale Rossi rappresentano il meglio della nuova generazione di jazzisti italiani: perché hai scelto loro come tuoi partner in questo progetto?


LDA: La domanda si auto risponde: li ho scelti perché rappresentano il meglio della nuova generazione di jazzisti italiani…, in più ho la fortuna di condividere con ciascuno di loro un’amicizia al di là della collaborazione musicale, e poi perché so che sono tre musicisti che condividono un atteggiamento aperto ed elastico nei confronti della musica. Sono capaci di affrontare qualsiasi terreno in modo creativo e personale, e di generare materia musicale preziosa anche senza alcuna indicazione, come è successo per la maggior parte dei brani del disco. E’ incredibilmente esaltante e “nutriente” poter suonare con un gruppo che di fronte a una pagina scritta con poche indicazioni sappia tirarne fuori del materiale genuino e pulsante ogni volta mantenendo costante l’attenzione e la freschezza delle idee, con onestà e ironia.



JC: Human See, Human Do è una tappa della tua carriera: che peso gli dai e dove ti può portare?


LDA: Due settimane fa è nata mia figlia Camilla, l’arrivo di questo magnifico e poderoso esserino nella vita ha il potere di far passare tutto il resto in secondo piano, portando con sè la consapevolezza Yogica che tutto esiste nella meraviglia del momento presente. Quindi con tutta la gioia che sto vivendo in questo presente esaltante ti dico che, bah, non lo so e non m’importa. Ho già idee per brani nuovi (qualche tonnellata) e sto già pensando alle cose future… e se va avanti così credo proprio che saranno abbastanza vicine.




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