Foto: Angelo Bardini per gentile concessione Ufficio Stampa Piacenza Jazz Fest
John Surman Invisible Threads @ Piacenza Jazz Fest
Piacenza. Conservatorio Nicolini – 16.3.2019
John Surman: clarinetto basso, sassofoni
Nelson Ayres: pianoforte
Rob Waring: vibrafono, marimba
Le voci del pre-concerto davano John Surman nervoso e contrariato. Ne aveva ben donde: il suo clarinetto basso risultava smarrito in un qualche imprecisato aeroporto europeo, insieme alla valigia che conteneva abiti ed effetti personali. L’organizzazione aveva battuto città e zone circostanti per trovare uno strumento sostitutivo ed era anche riuscita nell’intento. Ma il maestro, una volta provato, aveva deciso di rinunciare alla voce bassa e di puntare tutto sul sax soprano. Sul palco, però, il polistrumentista inglese si è mostrato sereno e disposto anche a scherzare con il pubblico sulla sua disavventura, assicurando i presenti di avere acquistato una camicia e della biancheria pulita.
Il concerto è partito quindi col piede giusto e già dopo il terzo brano, la splendida Summer Song del pianista brasiliano, gli applausi sono diventati quasi ovazioni. Il trio era davvero in stato di grazia e la sua musica fresca, ricca di melodia e di colori (prezioso in questo senso il lavoro di Rob Waring), di delicatezze e accensioni liriche ha trascinato l’uditorio, piuttosto numeroso. Nel recensire il disco ECM in cui era documentato questo progetto (Invisible Threads) chi scrive aveva paragonato il maestro inglese, anche da un punto di vista visivo, a una sorta di pifferaio magico, ad un favolista incantatore di folle. A rischio di sembrare ripetitivi il paragone funziona perfettamente anche dal vivo. Surman pare proprio uscire da qualche fiaba nordica.
I tre hanno intessuto a lungo la loro preziosa tela di racconti musicali tenendo sempre vivo l’entusiasmo della platea. L’assenza del suono del clarinetto basso è stata rapidamente dimenticata.
Qualcuno, alla fine, lamentava un eccesso di calligrafismo nella proposta del trio, pur ammettendo che Surman è grande, anche quando si dedica agli esercizi di stile. Indubbiamente il progetto non è fra i più significativi della storia del grande strumentista inglese e Invisible Thread rimane un episodio di «splendida routine» (il lettore mi perdoni l’ulteriore autocitazione, ma l’ascolto live poco ha aggiunto ben poco a quello del disco). Tuttavia una volta pagato il doveroso tributo al nume della “critica-critica”, resta il ricordo di una serata intessuta di ottima, piacevolissima musica.
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