Jacopo Tomatis. Storia Culturale della Canzone Italiana

Foto: La copertina del libro










Jacopo Tomatis. Storia Culturale della Canzone Italiana

Il Saggiatore – 2019

Un libro “tosto”, impegnativo per il numero di pagine (810) e per il nutritissimo apparato critico. Ma anche un libro imperdibile per tutti quelli che s’interessano, professionalmente o meno, delle vicende della musica “extra colta”. È questo il primo pensiero che si formula una volta chiuso questo volume dei Jacopo Tomatis, giovane musicologo titolare della cattedra di Popular Music presso il Dams di Torino. La sua storia è completa, accuratissima. I suoi strumenti di lavoro e la sua narrazione sono prevalentemente musicologici, ma il testo non separa mai la storia della canzone da quella politica e sociale dell’Italia; i due mondi sono in continuo rapporto e ognuno dei due influenza e l’altro.


Ci sono diversi filoni di riflessione nel libro. Uno dei più importanti è la continua messa in discussione del concetto stesso d’italianità. Fin dalle origini i compositori nazionali s’ispirarono a ritmi e strutture che provenivano da oltreoceano, l’habanera, il tango, il fox trot e la beguine sono gli esempi più insigni. O’ Sole Mio, manifesto dell’anima italiana, è scritto in tempo di habanera. Non è certo questione di poco conto. I tentativi di dare spazio a una tradizione canora nazionale, come se ne esistesse una distinta dalle correnti che attraversano il panorama musicale globale, fanno ancora parte, oggi come ieri, di un dibattito culturale (e politico) piuttosto acceso. Il libro è uscito, guarda caso, nella settimana del Festival di Sanremo.


Con strumenti critici altrettanto affilati Tomatis ridiscute termini e miti come quello di cantautore, canzone politica, di pop, progressive e soprattutto di una loro presunta italianità. Allo stesso modo l’autore individua anche i meccanismi di trasmissione della canzone italica, parlando del ruolo degli editori musicali, delle case discografiche, del Festival di Sanremo, della Rai e dell’emittenza privata, della musica “liquida” dei nostri giorni. Nel capitolo finale si trovano alcune interessanti note sul Trap.


Nessun atteggiamento adorniano di superiorità rispetto al materiale trattato, nessuna indulgenza critica rispetto alla canzone d’autore, nessun elogio veltroniano dei bei tempi andati. Questa storia è scritta con un assoluto distacco critico e scientifico che non nasconde mai, tuttavia, le simpatie e le inclinazioni dell’autore.


Il jazz ha, ovviamente, un buon rilievo nella narrazione, anche se, è altrettanto ovvio, non ne è il protagonista. Interessante, ad esempio, è la messa in discussione di una sorta di una specie di via italiana al jazz stesso che alcuni hanno teorizzato e altri continuano a teorizzare.


La storia di ogni musica, questo mi pare il senso più interessante delle riflessioni di Tomatis, non ha un punto di arrivo. Suonare o cantare italiano sono categorie incerte, sfumate, poco utilizzabili, se non da un punto di vista strettamente ideologico e quindi non musicale.



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