Foto: Alberto Bazzurro
L’edizione numero 39 di Open Papyrus Jazz Festival. Parte Seconda
Ivrea e Canavese – 27/30.3.2019
Il festival di quest’anno è intitolato “Le memorie di Adriano”, come l’omonimo testo di Marguerite Yourcenar dedicato all’imperatore romano, ma si riferisce anche ad Adriano Olivetti, imprenditore progressista, cittadino illustre di Ivrea. Il gruppo Enten Eller si è formato per l’appunto in questa area geografica e nel suo DNA è presente l’humus culturale della città del Canavese, forgiato dallo sviluppo industriale e sociale degli anni dell’espansione della Olivetti. Sul quartetto di Barbiero-Brunod-Maier e Mandarini, Davide Ielmini, saggista e musicologo, ha scritto un libro, “Il suono ruvido dell’innocenza”, che introduce il pomeriggio del 30 marzo nella sala S.Marta. L’opera è costituita da una serie di interviste ai protagonisti di un’avventura che dura da più di trent’anni e ai loro collaboratori avvicendatisi nel medesimo lasso di tempo. Nell’incontro pubblico Ielmini e lo stesso Massimo Barbiero tracciano le coordinate di un percorso artistico segnato da un profondo rispetto reciproco e dalla volontà o dalla consapevolezza di porsi come “diversamente normali” all’interno del panorama del jazz italiano.
A questo momento letterario, segue il concerto di Emanuele Sartoris riservato ai temi di Enten Eller. Il giovane tastierista piemontese gioca a nascondere o a svelare in corso d’opera i motivi provenienti dal repertorio del gruppo, da Denique caelum a Teseo, da Pulizie di Natale a Indaco, immergendoli in una cascata di note secondo il suo stile abituale. Malgrado o in virtù di questo trattamento fastoso, le composizioni di Barbiero e soci risplendono di una malinconia intellettuale quasi inedita. Assumono, cioè, una sembianza forse inconsueta, ma non per questo meno affascinante.
La sera prima, fra l’altro, Sartoris si è esibito al Caffè del Teatro in compagnia di un battagliero combo, “Night Dreamers”, votato ad un modern jazz energico ed energetico. Presto, la stessa formazione sarà ospite dell’encomiabile programma di Rai 5 “Nessun dorma”, una finestra aperta su generi e artisti che trovano spazio saltuariamente all’interno dei palinsesti televisivi.
L’ultima serata dell’Open in teatro si apre con una big-band di 15 elementi formata in prevalenza da solisti mitteleuropei. Fanno parte dell’organico, però, pure tre musicisti italiani, Nicola Fazzini, Helga Plankensteiner e Igor Spallati. Dirige l’orchestra Wolfgang Schmidtke, sassofonista di Wuppertal, animato da una passione autentica per la musica di Monk. “Monk’s Mood” è proprio il titolo del progetto che Schmidtke e i suoi orchestrali stanno portando in giro per l’Europa in questo periodo, dopo aver inciso due cd omaggiando il repertorio del grande “Sphere”.
L’ensemble si impone in prima battura per una timbrica piena, compatta e granitica. Gli ottoni fanno sentire tutto il loro peso nelle parti all’unisono e anche nei botta e risposta fra sezioni colpisce un suono globale definito, robusto e dinamico. Il punto forte del set è, comunque, rappresentato dalle sortite in assolo, dove il glorioso Gerd Dudek, figura storica del jazz tedesco, compare, purtroppo, esclusivamente in un breve intervento. La Plankensteiner, invece, si prende prepotentemente la scena con due uscite grintose, cariche di furore interpretativo. Fazzini è anche lui autorevole, in bella evidenza, come il resto degli strumentisti sul palco con una nota di merito particolare per Peter Cazzanelli, che impressiona parecchio per come si esprime con il trombone basso.
L’appuntamento finale vede il ritorno a Ivrea di Giovanni Guidi, presenza ricorrente nella programmazione della rassegna eporediese dal 2013 in avanti. Stavolta la sua leadership è condivisa con Fabrizio Bosso, altro nome in auge da queste parti e non soltanto, nel progetto “Not a What”. Il quintetto annovera pure tre talenti afroamericani, non molto conosciuti in Italia, ma di sicuro affidamento e di confortanti prospettive future. La musica è segnata da un eclettismo di fondo e da un incedere piuttosto marcato. Non si usano le mezze misure, insomma. Si passa da pezzi di ambito free-bop a scansioni funky, non tralasciando sequenze meno dense e tirate, comunque vibranti. Il tastierista folignate va avanti e indietro sugli ottantotto tasti con un pianismo dolcemente percussivo e guida il gruppo, allo stesso tempo, in maniera attentamente rilassata. Ogni volta che ne ha la facoltà, Bosso, poi, dà un saggio significativo del suo virtuosimo, sprigionando, metaforicamente, fiamme dalla sua tromba e prendendosi anche qualche licenza idiomatica, rispetto al solito. Jeremy Dyson, il batterista, è in modalità assolo permante e stupisce per la padronanza dei mezzi e della situazione musicale in divenire. Dezron Douglas, per contro, è il classico bassista duttile e affermativo, ben inglobato nella logica di “Not a What”. Resta da sottolineare il contributo assolutamente convincente di Aaron Burnett, un sassofonista che ha assimilato la lezione dei chicagoani e ha “rubato”, inoltre, ad altri maestri del jazz contemporaneo per costruire un fraseggio personale di stoffa pregiata.
Il numeroso pubblico in platea chiede a gran voce il bis e Guidi-Bosso in coppia rileggono a modo loro, con il dovuto rispetto, My funny Valentine. La versione dello standard caro a Chet Baker è di una semplicità e di un gusto rari e chiude al meglio la trentanovesima edizione dell’open al Giacosa, anche se, in realtà, si ascolta un ulteriore bis con il quintetto al completo, meno pregnante, però, del primo.
Al Caffè del Teatro, dopo la mezzanotte, c’è ancora tempo per apprezzare il quartetto denominato “Svengali”, creato da quattro giovani promettenti ex allievi del Music Studio, scuola di Musica, autentico fiore all’occhiello per la città di Ivrea e per tutto il Canavese. La trentanovesima edizione della rassegna si conclude così con un bilancio oltremodo positivo, sia per il livello delle proposte nel cartellone, sia per l’aumento del numero di spettatori nei confronti dello scorso anno.
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