Foto: Ferdinando Caretto
Marcus Miller @ Monfortinjazz 2019
Monforte d’Alba – 9.7.2019
Martedì 9 luglio, e il primo appuntamento del Monfortinjazz da incipit si è improvvisamente tramutato in una specie di prologo. In trasferta, per giunta.
In effetti già dal giorno prima aleggiavano parecchie nubi sul magnifico auditorium Horszowski di Monforte d’Alba: il quale per chi ancora non lo conosce è, a dispetto della definizione, un luogo aperto e magico dall’acustica perfetta. Dunque era iniziato un complesso trasferimento al Teatro Sociale “Giorgio Busca” di Alba, piuttosto elaborata era anche l’attuazione di un passaparola veramente efficace e comunque alla fine quasi tutto è andato a posto, a parte una certa concitazione e il sestetto prelevato a forza da un ristorante della zona. E non stupisce, posto il livello delle libagioni.
Marcus Miller è in tour europeo per presentare l’ultimo lavoro “Laid Black” insieme ai cinque musicisti che già da qualche tempo fanno parte della sua formazione e non lasciano rimpiangere i numerosi ospiti nel disco, dalla voce evocativa di Selah Sue – da cui il bassista dice di sentirsi particolamente ispirato – a Jonathan Butler, Trombone Shorty o i Take 6. Ho sempre amato questo musicista prismatico e la sua capacità di muoversi tra un capolavoro e una sequela di “funkettini” vari e, seppure nel tentativo di arrivare preparata a questo concerto, una volta in teatro avrei voluto sapere almeno di più su questi luminosi, giovanissimi sidemen. Però niente: non un programma di sala, non una nota sul sito, nulla. Spiazzata sul momento, sono stata prodiga di consigli sull’opportunità di parole che accompagnassero l’evento mentre in effetti bastava andare a cercare sul web uno qualsiasi degli altri concerti del tour ed eccola magicamente, la formazione. Anche la proposta dei brani è pressoché la stessa, ma in ogni modo ci auguriamo tutti piuttosto intensamente che uno dei più originali e sfavillanti festival jazz nazionali preveda al più presto l’apporto di un grafico-più-redattore.
Miller arriva sul palco sorridente, con il tipico straniamento di chi ha appena stappato un barolo e non è riuscito a berne che un sorso dunque attacca quel suo suono così pieno, così corposo e bello e solo suo, anche se è evocativo e pensi un po’ a Jaco e un po’ a Stanley e magari cinque minuti prima pensavi che il tuo registro basso preferito fosse quello di Charnett Moffett ma ora devi ricrederti.
Il suo strumento è un oggetto meraviglioso anche dal parterre, brandito per sedurre un pubblico che in realtà pende già da ogni sua nota. Un po’ piacione lo è, Marcus, ma in modo naturale e poi è così ispirato che non si può fare altro che battere le mani come pazzi, cantare su sua conduction come in Hylife (dall’album del 2015 “Afrodeezia”) e lasciarsi stupire da questi ragazzi grandissimi che avvolgono ogni esecuzione di passaggi perfetti e sfumature sapientissime.
Il duo di fiati si somiglia anche fisicamente nell’incedere sul palco, ma mentre Alex Han caratterizza il suo sassofono di colori o passaggi morbidi assecondando la natura del brano, a Russell Gunn tocca il difficile compito di doppiare Miles nella bella versione di Bitches Brew e soprattutto in Tutu, il pezzo composto e arrangiato da Miller che è ormai leggenda. Gunn riesce nell’intento con qualche emozione e asperità, che comunque lo rende umano e vibrante; a parte il celeberrimo attacco, che ci traspone tutti all’istante in un’altra dimensione, questa versione è caratterizzata da una ritmica differente, più veloce e incalzante e sicuramente maggiormente adatta al groove diffuso di questo concerto.
I due pianisti Julian Pollack e James Francies lasciano spesso a bocca aperta, l’uno più funky e l’altro apertamente votato alle variazioni jazz, e in brani come Trip Trap o Untamed o ancora Sublimity “Bunny’s Dream” queste due attitudini si fondono alla perfezione. La pulsazione del batterista Alex Bailey è lucida e, al di là di una tecnica impeccabile, ha il merito di essere personalissima e incandescente.
A metà concerto, quando cioè siamo ormai tutti conquistati da questa musica e dai suoi protagonisti, capiamo che non c’è fine allo stupore quando Miller imbraccia il clarone: ed è vero, lo sapevamo già tutti che è stato il suo strumento elettivo, che si è diplomato in clarinetto, che ad ogni concerto si riserva almeno un brano da eseguire… Eppure quando affiorano cristalline le note del tema di How Great Thou Well, rimaniamo tutti in un silenzio incredulo, a seguire le note e il gesto assai teatrale di uno che si porta a spasso per il palco un oggetto tanto lucente e ingombrante.
Bis, ne aveva almeno due a disposizione e nonostante tutte le urla scomposte e le mani roventi gliene abbiamo strappato solamente uno, chissà perché. Naturalmente era il classico Come Together e classicamente abbiamo cantato con lui fino a restare senza voce.
Chi scrive anche senza parole, in effetti, nei cinque minuti del dopo concerto a lato del palco. Tutti a farsi foto con lui, mentre gli avrei chiesto volentieri di provare il suo celeberrimo cappello. Non l’ho fatto, sono riuscita a mettere malamente insieme due frasi, finché lui non ha risolto un dialogo improbabile con un accordo semplice: «Oh look, you’ve got a goosebump!!!» Davvero un concerto pieno di emozioni, non c’è che dire.
Monfortinjazz prosegue il 26 luglio con i Calexico and Iron & Wine (concerto cancellato lo scorso anno a causa della pioggia), il 28 luglio con il polistrumentista australiano Xavier Rudd per giungere alla serata finale con Mario Biondi e varie notevoli degustazioni di vini Barolo della zona.
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