ECM Records – ECM 2549 – 2019
Areni Agbabian: voce, pianoforte
Nicolas Stocker: batteria, percussioni
Comincia a definirsi in ECM una non banale (ma mai davvero dichiarata) serialità dedicata in particolare alla cultura d’Armenia.
Inaugurata probabilmente da un ben confezionato album della violista Kim Kashkashian (Hayren, del 2003) dedicato all’opus del capitale Komitas Vardapet e del contemporaneo e vivente Tigran Mansurian (con la di lui partecipazione pianistica, insieme alla percussionista avant-garde Robyn Schulkowsky), la successione è proseguita con una regolare produzione di opere appunto di Mansurian (nella collana New Series), quindi con un paio di lavori del neo-archeologico Gurdjieff Ensemble di Levon Eskenian, raggiungendo un acme intorno alla ricorrenza del centenario dal Genocidio armeno con altre due uscite, comunque molto differenti, facenti capo alla creatività del giovane leone della tastiera Tigran Hamasyan, per completarsi temporaneamente con una più recente e notevole performance di solo piano della talentuosa pianista Lusine Grigoryan (Komitas: Seven Songs).
Una nuova, magari più informale incarnazione potrebbe esserne la proposta dalla giovane vocalist e pianista losangelina, ma di netto pedigree armeno, Areni Agbabian, che qui arruola il percussionista elvetico Nicolas Stocker, già notato per alcune sortite discografiche presso la Ronin Rhythm Records di Nik Bärtsch, e da questi arruolato quale percussionista preso la sua formazione di acustico chamber-jazz Mobile (prodotto da ECM): il dietro le quinte di queste ultime sessioni di studio ha fornito l’occasione per l’incontro conoscitivo tra i due partner, che si producono in un programma ispirato alle radici di Agbabian, comprendenti canti a familiare tradizione orale, oltre a materiali dei citati musicisti armeni, quindi agli interessi verso l’avanguardia (Goerge Crumb e Morton Feldman in testa) nonché il grande bacino pop di formazione.
È verosimilmente in quest’ultimo àmbito da valutare la somma dell’operato della coppia musicale e, pur rilevando una certa unanimità di apprezzamenti critici, il nostro ripetuto ascolto riscontra una relativa estraneità nei rispetti della nobile tradizione musicale in precedenza espressa dai diversi cultori, pur sempre nel rispetto dell’importante cultura atavica, di questa rendendo una versione “light” e destituita di mordente semantico.
Avviandosi nell’iniziale Patience, il primo titolo della sequenza più che esemplificare un sentimento sembra anticipare l’atteggiamento di cui l’ascoltatore dovrà provvedersi nel caso si disponesse all’avvento di un quid che rivesta impatto estetico o almeno una qualche rilevanza: pure, non si vorrà disconoscere oltre ad una certa solennità celebrante (cui contribuiscono gli apporti percussivi) una sorta di patinata (quanto flebile) postura trovadorica nell’esplicitare sorpresa e limpidezza nell’abbordare la “creazione in musica” di cui si rimane, alla fine della fiera, in vana attesa salvo accontentarsi di un affresco di persistente vaghezza.
Lavorando probabilmente più per sottrazione che per apposizione di segni, Agbabian elabora una propria testimonianza in cui si noterà apprezzabile la sobria espressione pianistica e vocale, di concerto con il centellinato ma pertinente interventismo di colore del sintonico percussionista, cui non difettano inflessioni etniche (parto più della duale fantasia che di reale riproposizione) lungo una sequenza che include “anche” il contributo compositivo del produttore Manfred Eicher (opportunamente confinato a non oltre una manciata di secondi); temi e stilemi si susseguono entro un sistema di rimandi proprio e in sostanza auto-referenziale, non potendosi sdoganare con formule del tipo “ariosa costruzione o gemmante creatività” il “giardino di stupori e meraviglie” quale Bloom tende a configurarsi, pervenendo certi “brumosi e misterici” passaggi in un’epoca in cui l’abbiamo fortunosamente scampata dal dilagare della sciagurata (quanto fatua) interiorità New Age.
La perseguita dimensione fiabesca e le reminiscenze domestiche generano una sorta di album-giocattolo che disvela i limiti della comfort-zone estetica e della progettuale presa di rischio della celebrata label bavarese: di fatto, e considerato il background, chi s’attendesse un qualche effetto-coda rispetto alla virulenta a e pirotecnica produzione di Tigran Hamasyan o sentori dell’etica musicologica e identitaria del sommo Komitas verosimilmente potrà archiviare il tutto nei dintorni (nobilitati) del vaporoso mondo di Enya, e circa il lusso di un quesito su quale ne sia la collocazione strategica nell’edificazione del contemporaneo catalogo ECM non sembra, rilevati gli esiti, di qualche rilevanza.
Segui Jazz Convention su Twitter: @jazzconvention