Foto: Ferdinando Caretto
Due Laghi Jazz Festival 2009 – XVI Edizione
Avigliana – 27 agosto/5 settembre 2009
Percorri la Torino-Bardonecchia, è quasi sera e un cielo mauve si riflette sul Musinè, un monte a forma piramidale dalle strane evocazioni esoteriche. Forse un posto di lupi mannari, un vulcano spento dai mille anfratti inesplorati, con un misterioso obelisco celebrato anche da Peter Kolosimo in un famoso libro e infine qualche riflesso baluginante e fluorescente di cui non si sa decrittare l’origine. Ci rifletti, ti concentri, pensi a dove ti stai dirigendo mentre ogni dieci metri leggi “No-TAV” in ogni dove, come un mantra…
Raggiungere Avigliana e il suo Festival del Due Laghi a fine agosto è sempre un po’ come ricominciare a mettere in moto le sinapsi, come tornare a scuola alla fine dell’estate, come ripercorrere un percorso di jazz lasciato interrotto al di là del Musinè, dove probabilmente questa volta il bagliore è la presenza di Gianni Basso, a cui è ovviamente dedicata – con un’attitudine meravigliosamente sorridente, nulla di stucchevole – tutta la manifestazione di quest’anno.
Fulvio Albano, che cura il Festival da sedici edizioni, propone ogni anno una formula vincente e composita di proiezioni cinematografiche, eventi letterari (quest’anno lo spazio è stato occupato dal bel libro di Luca Ragagnin “Un amore Supremo”, con il pertinente commento musicale del chitarrista Lucio Simoni), e del prestigioso workshop assai apprezzato per qualità dei docenti, che vedeva quest’anno la presenza del sassofonista americano Jim Snidero, oltre a Sangoma Everett, Gabriel Espinosa, Aldo Zunino, Valerio Signetto, Luigi Tessarollo, Renato Chicco e naturalmente Palmino Pia e Dusko Gojkovic. Unica l’atmosfera dei concerti nei caratteristici localini in riva ai due laghi oppure nell’artistico cortile della Sala Consiliare – teatro di session strabilianti nel tempo dilatato dei dopo-concerto – , e quest’anno il programma ha offerto veramente molti spunti interessanti, dall’intensa cantante francese Capucine Ollivier alla performance di un nuovo gruppo interessante e in fieri come il Jazz Accident dei talentuosi Gianni Denitto al sax e Fabio Giachino al piano con Marco Piccirillo e Paolo Musarò.
La prima sera in Piazza Conte Rosso (davvero uno sfondo sublime) appartiene al concerto finale degli alunni iscritti al workshop. Il pubblico è sempre molto e piacevolmente eterogeneo tra curiosi, parenti ed ex-indecisi desiderosi di prossima iscrizione. E come ogni anno circola tra le seggiole la parola “saggio”, che mai come in questo caso è scarsamente rappresentativa di un’esibizione invece matura, musicalmente completa ed estremamente accurata. Al solito prevalgono per numero le cantanti, con qualche spillo di particolare creatività in mezzo ad altro genere di spilli – o almeno, nel mio personale sentire risulta alla lunga fastidioso tutto questo prendersi sul serio, al di là dell’innegabile tecnica… – una strepitosa, incontenibile trombettista (Daniela Immormino) e un pianista dal tocco soave e vagamente evansiano come Gian Luca Martinengo.
Dalla sera dopo in poi, sarà tutta una teoria di emozioni da risolvere nelle varie modalità del jazz: tre concerti differenti per forma ed obiettivo che regalano al pubblico la sensazione di “afferrare” il jazz, risolverlo attraverso mille sonorità differenti e così giungere alle cose con la capacità di scoprire sempre nuovi codici. Le note lontane di Franco D’Andrea. La leggerezza concreta di Bobby Watson. Il suono malinconico pieno di luce della Torino Jazz Orchestra.
La distanza sommessa dei brani proposti dal Franco D’Andrea Quartet è solo apparente. Essere presenti a un concerto di D’Andrea è sempre un’esperienza unica e immutabile, qualcosa di assolutamente particolare: un suono sospeso e indefinibile come quello del sassofono di Andrea Ayassot, arcano e preciso come le spazzole di Zeno De Rossi, fisicità pura come il tocco del contrabbassista Aldo Mella. Una musica che è respiro.
Ritmica pulsante, un sax sensazionale perché pervaso da sensazioni, il suono del piano che si dipana creando un’onda e un dialogo contrabbasso-piano molto poco oleografico donano a questo concerto una qualità unica. La voglia di cercare oltre. Il pubblico, attentissimo, non applaude per non interrompere la magia e si lascia accompagnare in questa nota vagamente fusion e un po’ perduta ma in un modo intenso e poetico.
Bobby Watson il venerdì porta sul palco del Festival intrecciato di vento il cappello bianco e la propria esperienza con uguale leggerezza. Il quartetto fila che è un piacere e Curtis Lundy ha mani che nemmeno raccontandole si possono esprimere. Alla batteria Eric Kennedy è generoso di assolo, e dopo averli recepiti in tutta la loro intensità sembra di essere usciti da un rullo compressore, tale e tanto è il coinvolgimento che riesce a creare. Xavier Davis al piano mitiga tutta questa corporeità con un tocco ondulante che struttura di suoni e citazioni. E quando Watson inizia con i crescendo e calando come pronunciando affermazioni, infiamma la folla e la porta a spasso. Il vento – davvero fortissimo – scompiglia le gonne e i pensieri e i piatti e le note del sax, e chissà dove le porta, ma al di là del disagio effettivo gli “angeli” del service raccolgono gli spartiti e il capriccioso cappello di Bobby che vola tra i sorrisi. Il pubblico è abbacinato, urla applaude si protegge e sa che se il vento volesse seguire il proprio ritmo, sarebbe proprio questo.
La “nota in più” di una formazione ormai proverbiale come la Torino Jazz Orchestra, è avere Gianni Basso nella propria genesi e sicuramente nel proprio cuore. Non c’è mai stata retorica, in Fulvio Albano e i tutti gli strumentisti della Big Band, da quando Gianni non è più qui, e c’era sicuramente da aspettarselo. Nessuna commemorazione strumentale può essere possibile quando l’affetto è autentico, ed è questo il caso. Così l’incipit della serata, ossia la canonica Miss Bo scritta da Gianni, in questa interpretazione è adamantina. Il trombettista Dusko Gojkovic, che guida l’orchestra con tutta la delicatezza e la modestia che contraddistinguono un grandissimo musicista, dedica a Gianni una On a Clear Day’ piena di gioia. E’ emozionato, e tuttavia così lucido. Gianni sarebbe assai contento del clima.
Gianluca Tagliazucchi al piano è al solito misurato e credibile. Un grandissimo strumentista di cui sentiremo parlare sempre di più.
Poi arriva Dino Piana, emozionatissimo come Fulvio, e se da una parte tutto questo poteva apparire automatico non c’è davvero nulla in questo concerto che si possa dire ridondante o prevedibile. La performance è impeccabile, tutto ha un brio particolare, pulsante, quasi sensuale. Tutti i musicisti sono luminosi e fluidi, gli arrangiamenti sembrano di cristallo, nulla sembra “dejà écouté” ma anzi il blend in questa serata sembra perfetto. Molto “basiano”, anche se a un certo punto intervengono alcuni strumentisti di Belgrado, invitati da Dusko, che eseguono una A Night in Tunisia da urlo – alterata da sonorità di ogni tipo e da una gran tecnica – e ti saluto mainstream.. Bellissimo.
Arrivederci a fine estate, edizione n. 17. Sarà tutto magnifico e rutilante, ai piedi del Musinè nessuno è scaramantico. Fulvio Albano è un uomo pieno di sorprese.