Davide Ielmini. “Il suono ruvido dell’innocenza”

Foto: La copertina del libro









Davide Ielmini. “Il suono ruvido dell’innocenza”

Arti Grafiche Biellesi, 2019


Davide Ielmini, giornalista e critico musicale piuttosto eccentrico, molto preparato, dopo essersi occupato di Odwalla continua il suo viaggio attorno ai gruppi che vedono in prima fila Massimo Barbiero con questo libro dedicato ad Enten Eller, una delle formazioni più longeve nel panorama jazzistico italiano. Per approfondire la conoscenza di Enten Eller, il musicologo varesino utilizza il sistema dell’intervista ai protagonisti di questa avventura ultra-trentennale, andando a scavare nei ricordi e nel vissuto di quanti hanno partecipato all’esordio e, magari, si sono defilati o sono stati sostituiti successivamente. Seguono, poi, i dialoghi con i quattro membri attuali e la testimonianza degli ospiti speciali invitati per ricoprire un ruolo ad hoc in determinate registrazioni. Poichè Massimo Barbiero e soci amano la contaminazione dei generi non potevano mancare, inoltre, gli interventi delle danzatrici, come Roberta Tirassa, Cristina Ruberto o Giulia Ceolin, e quello di chi ha concorso alla realizzazione di una delle opere emblematiche del quartetto, Franco Bergoglio, autore e assemblatore dei testi di E(x)stinzione, progetto ambizioso con voce recitante e canto, orchestra sinfonica e con il coinvolgimento di altri jazzisti di chiara fama. Il capitolo finale è riservato alle immagini di Luca D’Agostino, utili non tanto a documentare un percorso, quanto interpreti, allo stesso livello delle altre arti messe in campo, della storia del quartetto.

Dalla lettura delle interviste si ricostruiscono, tassello dopo tassello, le varie tappe della vicenda artistica e la filosofia di base di Enten Eller. Si viene a sapere che la formazione è nata come un settetto e aveva fra i punti di riferimento l’analoga formazione di Tim Berne, astro nascente all’epoca ( metà degli anni ottanta), che aveva abbagliato tutti con l’incisione di “Full street Maul”, disco molto amato da Massimo Barbiero in particolare.

Il percussionista e i suoi partners da sempre hanno rivolto lo sguardo verso il futuro, secondo una concezione priva di compromessi, magari inizialmente con un po’ di ingenuità, in seguito più consapevolmente, rifiutando la musica come puro intrattenimento per produrre qualcosa che allargasse le prospettive e avesse un respiro diverso, rispetto ad un modello di jazz ripetitivo e stereotipato. Nessuno dei quattro, però, ritiene che il gruppo sia da incasellare nella corrente dell’avanguardia. Mandarini a questo proposito è categorico. «Siamo romantici sognatori, amanti della melodia che si divertono a mischiare le carte per spiazzare l’ascoltatore.» In tutti c’è il rimpianto, ancora, per aver avuto un numero relativo di occasioni per suonare insieme in questo lungo lasso di tempo, visto che le grandi rassegne, soprattutto, non li hanno mai avuti in cartellone.

Fra i musicisti ospiti è molto interessante quello che afferma Laura Conti sottolineando «la capacità del gruppo di accogliere in organico contributi che non diventano il lavoro del gruppo con l’ospite, come capita ad un numero enorme di produzioni. Enten Eller è un gruppo “olivettiano” che ha la capacità di mettersi in gioco.» In questo modo, oltretutto, si ribadisce il concetto riguardante il legame fra Barbiero e Brunod in primis, con la realtà culturale di Ivrea, figlia degli anni di grande fermento in cui la Olivetti era in attività e faceva da traino sociale e formativo a tutto il territorio canavesano.

È estremamente indicativo, altresì, cosa riferisce Cristina Ruberto sul rapporto fra musica e danza e su come ha affrontato questa relazione: «Mi è bastato ascoltare le suggestioni musicali e lasciar parlare il mio corpo e me stessa». Non meno significativo, allo stesso modo, è il racconto del tipo di approccio che ha Luca D’Agostino nel lavorare alla documentazione dell’azione scenica durante i concerti del gruppo. «L’obiettivo è raccontare una storia. Tutto quello che mi può aiutare a raggiungere questo fine lo catturo.»

Ielmini rivolge spesso le stesse domande agli intervistati, perché cerca, in un certo senso, delle conferme alla sua idea di Enten Eller e batte, spesso, sugli stessi tasti, quali l’inquadramento stilistico, la differenza fra gli album della fine degli anni ottanta e le più recenti incisioni, l’apporto fondamentale di alcune guest star (Succi, Girotto, Tim Berne…) a far lievitare la proposta del gruppo. Conoscendo bene la materia, la narrazione a più voci si snoda piana e senza scossoni e si arriva in fondo al libro con la convinzione di aver appreso tanto sul gruppo poiché, come annota Sessa nella prefazione. «Ielmini osserva questo organismo (Enten Eller – n.d.r.) lasciandolo libero di muoversi come crede, lo osserva reagire in piena libertà.» E riguardo al fatto che sovente le domande siano iterate «(questo) non rappresenta una gabbia precostituita, ma una griglia interpretativa che apre spazi in ogni direzione.»

L’abilità di Ielmini sta proprio nel condurre il gioco con discrezione, in maniera non invasiva, concedendo agli intervistati la possibilità di sviluppare a piacimento gli stimoli ricevuti, salvo poi svoltare al momento opportuno, instradare il colloquio verso gli argomenti che gli stanno a cuore per fornire un quadro completo dell’oggetto del suo testo. A questo proposito il libro contiene pure la discografia completa del gruppo, comprensiva delle cover ed è corredato da un certo numero di foto in bianco e nero di D’Agostino scattate nell’arco di trent’anni.

Non resta che chiudere con un estratto dalla postfazione di Luciano Vanni, personale ma socializzabile. «Ho inserito “Mostar” fra i miei ascolti ricorrenti di Spotify: perché degli Enten Eller, in fondo, hai sempre bisogno.»



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