Roma Jazz Festival 2019

Foto: Archivio Fabio Ciminiera











Roma Jazz Festival 2019

Roma – 1.11/1.12.2019


A Roma, ormai da qualche anno, novembre è il mese tradizionalmente legato al Roma Jazz Festival. Arrivato alla sua quarantatreesima edizione, quest’anno la manifestazione ha come filo conduttore un tema importante e quanto mai attuale, quel no borders che indica come i confini siano fatti per essere attraversati, confini musicali ma non solo. E se come diceva Sonny Rollins che suonare jazz significa sempre fare politica, il cartellone vede protagonisti artisti che hanno lanciato con la loro musica, ma anche attraverso il loro vissuto, un messaggio di libertà.


In un bel cartellone che vede la presenza di nomi storici del jazz accanto a quelli più giovani orientati verso l’apertura a nuove sonorità, il tema di fondo ha caratterizzato la maggior parte dei concerti, con in primis, ad inizio festival, quello del batterista messicano Antonio Sanchez, uno dei più ferventi oppositori della politica di Trump.


Grande attesa era riservata per due grandi artefici di un jazz che si sta facendo sempre più raro, due musicisti che hanno oltrepassato brillantemente gli ottant’anni e che hanno in passato anche incrociato le loro strade: Archie Shepp e Abdullah Ibrahim. Il ritorno del sassofonista americano è stato probabilmente il punto più alto dell’intera manifestazione, sia per quello che ha rappresentato dagli anni ’60 in poi, e sia perché ormai erano tanti anni che mancava dai palchi romani. A capo del suo quartetto, con l’immancabile stile ancora intatto che lo ha da sempre contraddistinto, Shepp appare lento e invecchiato nei movimenti, ma non nel suono del suo sassofono, con il suo soffio riconoscibile ancora puro e immutato. Il sassofonista ha reso omaggio ai suoi maestri e riferimenti con dei rifacimenti di alcuni temi celebri di Duke Ellington, John Coltrane e ben tre brani di Thelonious Monk, tra cui la scelta di chiudere con la sua ‘Round Midnight. In mezzo anche qualche blues delle origini e qualche brano cantato dallo stesso leader, che alla fine riceve una standing ovation che commuove e che rende il giusto tributo ad un personaggio che ha contribuito ad interpretare un nuovo modo di intendere l’avanguardia del jazz. A distanza di una settimana protagonista è invece il sudafricano Abdullah Ibrahim in un concerto per piano solo caratterizzato, per scelta dello stesso pianista, dall’assenza di amplificazione in favore di un suono più puro che ha di contro richiesto ancor più silenzio e concentrazione. Una sola lunghissima suite che ruota intorno al tema dolce di Blue Bolero ha immerso gli spettatori nelle atmosfere riflessive e meditative disegnate dal pianista, in cui trovano spazio i tanti temi che hanno segnato la sua arte, da quando si faceva ancora chiamare con lo pseudonimo di Dollar Brand a quelli più recenti, in cui sono chiari i richiami all’Africa così come a Duke Ellington, per un modo unico e personale di intendere il piano solo come pochi riescono ancora a fare ed emozionare. Il bis è ancora un tributo alla sua terra con un traditional questa volta appena accennato a voce, il modo migliore per concludere un concerto toccante che non si vorrebbe mai far terminare.


La fresca uscita discografica del nuovo progetto in trio del contrabbassista inglese Dave Holland, che vede l’incontro con il sassofonista americano Chris Potter e del maestro indiano delle tabla Zakir Hussain, ha richiamato un buon numero di spettatori per quella ricerca spirituale e quell’incontro tra Oriente e Occidente, attraverso la tradizione musicale indiana che ha affascinato molti jazzisti fin dagli anni Sessanta. I tre ripropongono quasi fedelmente i brani, che portano la firma di ognuno dei protagonisti, racchiusi nell’ultimo album Good Hope, senza per la verità aggiungere nulla di particolarmente interessante. Il trio infatti appare fin da subito quasi svogliato, con Holland sempre impeccabile con il suo strumento a far da raccordo tra un Potter che sorprendentemente non incide quasi mai, né nei temi né tantomeno negli assoli, e un Hussain che bensì rimane costantemente per volumi e intensità sopra gli altri, offuscando una musica che non trasmette nulla, se non una impeccabile maestria e tecnica dei musicisti verso i loro strumenti.


Discorso ben diverso nel concerto conclusivo del festival, ad inizio dicembre, che ha visto l’incontro del trombettista Paolo Fresu, del fisarmonicista Richard Galliano e del pianista Jan Lundgren per festeggiare i 15 anni del loro progetto Mare Nostrum. Qui il trio ha attinto a piene mani dai tre album che in questi anni sono usciti per la Act fin da quello che ha dato il titolo all’intero progetto racchiuso nel primo disco. Brani che ripercorrono il lavoro di questo bel sodalizio e che spaziano dal brasile di Jobim fin al compositore d’opera italiano Monteverdi con la sua Sì dolce è ‘l tormento riproposto come bis conclusivo. Ma sono tante anche le composizioni originali scelte che, alla bellezza dei temi proposti, portano ai massimi livelli l’arte dell’ascolto reciproco, del rispetto e dell’incontro. Un trio che si conosce bene e si amalgama alla perfezione per una musica d’insieme che prevarica ogni confine geografico e temporale grazie alla poesia e alla immensa classe di ogni suo componente, e che meglio non poteva concludere una manifestazione che anche quest’anno ha vinto la sua sfida, sia in termini qualitativi che di presenze.




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