Open Papyrus Jazz Festival: “Linguaggi”

Foto: Alberto Bazzurro










Open Papyrus Jazz Festival: “Linguaggi”

Ivrea – 3/4/5.9.2020


La quarantesima edizione dell’Open di Ivrea avrebbe dovuto svolgersi a marzo con un programma comprendente grossi nomi di livello internazionale, da Bill Frisell in compagnia del trio di Chris Potter, a Joe Lovano insieme a Enrico Rava. Il lockdown, come noto, ha bloccato ogni tipo di manifestazione e si poteva mettere in preventivo un rinvio al 2021 dell’intera rassegna. La volontà, la tenacia degli organizzatori, unite alla concreta disponibilità dell’amministrazione comunale hanno permesso l’effettuazione del festival a settembre, al fine di non interrompere una lunga tradizione e di festeggiare, così, un anniversario importante. Il direttore artistico Massimo Barbiero ha puntato, a questo punto, viste le difficoltà logistiche e non solo, su musicisti amici dell’Open e sulle preziose risorse del territorio, cercando di mantenere il titolo aggregante, Linguaggi, e le peculiarità dell’iniziativa. L’atmosfera che si respira a Ivrea in quei giorni, infatti, è particolarmente vivace, carica di buone vibrazioni e, prendendo in prestito un concetto esposto da Michelone nella presentazione dei suoi libri, si può affermare che il meta-testo, il contorno, la rappresentazione della musica ascoltata, costituisca un corollario indispensabile per godere di quello che avviene al centro della scena. Di fatto i concerti continuano anche dopo la conclusione in teatro, negli scambi di opinione, di battute, davanti all’ingresso del Teatro Giacosa, o più tardi alle cene attorno alla mezzanotte. Sono questi aspetti che spingono Barbiero ad affermare che il festival è fatto principalmente di persone, sistemate da una parte o dall’altra del palcoscenico o dietro le quinte. Proprio la condivisione dell’evento fra chi organizza, chi fiancheggia e chi fruisce, provoca, perciò, un cortocircuito virtuoso in grado di far risplendere di luce viva la rassegna stessa.


Dopo un inizio con il botto il 3 settembre, riservato al trio di Paolo Fresu nell’omaggio a Chet Baker, tratto dallo spettacolo teatrale “Tempo di Chet”, che ha fatto il tutto esaurito al Giacosa ed è stato accolto festosamente, è toccato a Guido Michelone il giorno dopo aprire gli incontri con l’autore. Il giornalista vercellese è stato definito “scrittore compulsivo” da quanti lo conoscono per la sua iper-produzione di libri, grazie ad una costanza e ad una regolarità veramente considerevoli. Nella sala S.Marta vengono presentati tre testi in un colpo solo fra i più recenti, e Michelone ne illustra i contenuti con la abituale capacità divulgativa, accompagnata da un’esposizione chiara e brillante.


Salgono successivamente sul palco i Night Dreamers, protagonisti nel 2019 del dopofestival al caffè del teatro e promossi quest’anno ad occupare uno spazio più significativo, alle ore 19, dopo la consueta degustazione di prodotti tipici del canavese. L’acustica della sala è parecchio deficitaria, ma questo non impedisce agli spettatori di assistere ad un set brioso, piacevole, dove si può apprezzare l’intesa sempre più rodata fra i quattro sognatori della notte. Il repertorio si basa sull’ultimo cd “Technè” dedicato al mondo dell’automobilismo. Si notano, rispetto al disco, una maggiore scioltezza, il gusto di prendersi qualche libertà in più e di spingere sull’acceleratore quando se ne sente la necessità, mandando su di giri il motore ritmico del gruppo. Inutile dire che, alla fine, il successo del quartetto venga sancito con ripetuti applausi


Poco più tardi ci si trasferisce in teatro dove ancora una volta si aspetta con curiosità l’esibizione di Odwalla ad un anno e mezzo di distanza dall’ultima performance eporediese. Rispetto a marzo 2019, la grossa novità è rappresentata dall’inserimento nell’organico, a tutti gli effetti, di Boris Savoldelli, one man band della voce, istrionico e pirotecnico artista, già complice di Barbiero ne “La compagnia del Trivelin”, trio completato da Roberto Zorzi. Savoldelli, invero, si erge a protagonista della serata in molte situazioni, dilatando le introduzioni dei brani in repertorio con tutta una serie di effetti, di invenzioni mirabolanti, prodotti con il microfono, la loop station, ma anche in acustico con un attento uso delle mani o di altre parti del corpo. La sua presenza scenica è straripante, tanto da mettere un po’ in ombra l’altra cantante, Gaia Mattiuzzi, che, però, riesce a imporre le sue ficcanti modulazioni vocali, rimanendo sul pezzo, non divagando dal copione assegnato. Il resto della band procede con meccanismi sincronizzati sui tempi dispari, sugli stop and go, per riprendere con maggiore lena, o sulla scansione e distensione dei temi, confermando una consonanza comune decisamente ragguardevole. Per scelta estetica ben ponderata, Massimo Barbiero ha pensato, poi, di occidentalizzare l’ambiente sonoro, il campo gravitazionale di Odwalla. Per questo motivo i due africani restano al loro posto, collaborano al sound complessivo, ma non occupano con la loro presenza in solitaria intermezzi dedicati al tourbillon percussivo, come avvenuto in altre edizioni del passato. Tutti, cioè, quando li si lascia a briglie allentate, pestano su tamburi, casse, piatti e altri oggetti con vigore e furore espressivo, senza distinzione di provenienza geografica. Mentre Cheik Faith, inoltre, si dedica a kora e djembè, strumenti di origine etnica, Doudou Kwateh armeggia pure con un tubo di gomma e con una bottiglia di plastica nel cui interno è infilato un bastone di legno. Insomma lo strumentario percussivo di uno dei due africani è realizzato con il riciclo di materiali prodotti in Europa, in una sorta di mimesi post-moderna.


Le due ballerine, Giulia Ceolin e Gloria Santella, infine, si impegnano in una danza molto fisica, corporea, volteggiando sul palco con movimenti fortemente caratterizzati, dove il gesto esprime reconditi significati, utilizzando come mezzo coreografico soltanto il vestito di scena.


Il concerto è uno dei migliori di Odwalla degli ultimi anni, ma probabilmente si è utilizzata la stessa frase per sintetizzare altre versioni dell’ensemble viste più o meno di recente….


Il 4 settembre si torna a Santa Marta, dopo aver ammirato in Via Palestro, i quadri in jazz a cura del collettivo “Arte in fuga”, un segnale di richiamo al contributo di diversi linguaggi, isolati o mescolati insieme, alla creazione dell’Open 2020. Spetta, a questo punto, ad Alessandro Bertinetto trattare del suo libro “Eseguire l’inatteso. Ontologia della musica e improvvisazione”. Nel testo si trovano paralleli interessanti fra improvvisazione nella musica e nelle altre arti, ma il relatore esprime le sue tesi con poca verve, in modo piuttosto piatto, disperdendo piano piano l’attenzione dell’uditorio. Peccato perché il taglio scelto per analizzare la tematica in gioco è piuttosto stimolante, degno di essere discusso e approfondito in altre sedi, non solo dagli addetti ai lavori.


Il set delle 19 è, invece, appannaggio del trio Novelli-Fiorini-Dimasi, rispettivamente a chitarra, basso e batteria. I tre suonano per oltre un’ora passando da pezzi di Chick Corea e Pat Metheny a qualche originals, non trascurando gli standards. Dimostrano, complessivamente, una buona intesa e la voglia di proporre una musica gradevole, priva di eccessive pretese.


Alle ore 21 al Teatro Giacosa chiude la manifestazione la JW Orchestra con ospite Gianluigi Trovesi in “Verdi play Jazz”.


Marco Gotti è da sempre interessato alle commistioni fra il jazz e la musica classica o operistica, oppure all’incontro con il pop in formato extra-lusso, qualificato dal cd dedicato ai Beatles. A Ivrea presenta arie tratte dal disco omonimo registrato nel 2003. I motivi verdiani sono riarrangiati in maniera abbastanza ingegnosa, su ritmi funky, generalmente, con qualche incursione nelle cadenze latine. Successivamente si aprono ampi squarci solistici su climi via via più lontani dal tema informante, salvo ritornarci sul finale con unisoni sostanziosi, eseguiti con il piglio giusto, per riprendere l’aggancio con le melodie verdiane. L’ottetto lavora felicemente come big band, con scambi e intarsi armonici ben condotti fra le varie sezioni. Fra i solisti Trovesi, al clarinetto contralto, è una spanna sopra su tutti, ma si difendono bene in particolare il trombettista Sergio Orlandi, spettacolare in alcune sequenze e il trombonista Davide Albrici, addirittura spavaldo nelle sue sortite.


Si concludono così le tre giornate centrali dell’Open, dove sono state rispettate scrupolosamente le norme di sicurezza per l’emergenza legata al covid, inevitabilmente, e l’organizzazione, in generale, ha conseguito meritati riscontri positivi dal punto di vista artistico e non solo. È stata, a conti fatti, una scommessa vinta, portata avanti con coerenza e abnegazione a fronte di difficoltà burocratiche non indifferenti e a fronte ad una situazione generale che avrebbe potuto anche causare un nuovo rinvio, visti i dati in crescita dei contagi nel nostro paese ad agosto. Il coraggio di credere in un progetto, in un’idea forte, trasversale fra la musica e le altre arti, invece, ancora una volta ha premiato gli organizzatori, che mai si erano trovati a contrastare ostacoli così ardui da rimuovere e che hanno saputo, però, raggiungere gli obiettivi prefissati, anche grazie alla sinergia fra tutte le forze in campo. La striscia di 40 festival svolti consecutivamente non è stata interrotta!




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