Flavio Caprera. “Franco D’Andrea: un ritratto”

Foto: la copertina del libro










Flavio Caprera. “Franco D’Andrea: un ritratto”

EDT – 2021

Franco D’Andrea è sicuramente uno dei protagonisti principali del jazz italiano da molti anni a questa parte. Curiosamente su di lui sono stati scritti solo due libri prima di questo, uno in forma di intervista e un altro che riporta il contenuto di una tesi di laurea, nell’ambito di Siena jazz. Flavio Caprera intende rimediare a questa lacuna pubblicando “Franco D’Andrea: un ritratto”, testo di oltre 200 pagine che nasce da una lunga serie di conversazioni con il pianista, avvenute nell’arco di tre anni, da una attenta documentazione sulle riviste specializzate, sui blog, e raccogliendo informazioni di prima mano dagli addetti ai lavori, compagni di viaggio di D’Andrea nella sua lunga avventura musicale. La prefazione di Enrico Rava ci aiuta ad inquadrare l’uomo e il musicista con la sintetica definizione “genio e regolatezza” che dice già parecchio sull’ex membro del Perigeo. Caprera narra la storia del tastierista meranese riferendo precisi dettagli della sua vicenda umana e artistica, evidenziando il progressivo sviluppo di un’idea estetica, maturata grazie all’applicazione sullo strumento, alla ricerca personale e tramite gli incontri con personaggi importanti all’interno di un percorso in ascesa, mai fermo, cioè, sulle conquiste raggiunte, ma sempre proiettato verso un possibile futuro.


D’Andrea è, fondamentalmente, un autodidatta. Colpito dall’ascolto di “Basin Street Blues” di Louis Armstrong, inizialmente, egli pensa di dedicarsi alla tromba. Prima di approdare al pianoforte, è il contrabbasso lo strumento che maneggia con una certa abilità, dimostrando di poter dire la sua anche con mezzi differenti dagli ottantotto tasti. La scelta definitiva del pianoforte si verifica attorno ai diciassette anni. Nei vari capitoli, poi, vengono illustrati i ripetuti trasferimenti da una città all’altra, per motivi di studio e di lavoro, e gli incroci, spesso decisivi, con alcuni musicisti, sempre alla luce della creazione di una identità jazzistica, cercata e voluta con costanza e sistematicità. Si possono citare, fra gli altri, Lucio Dalla, partner di concerti e di registrazioni nel soggiorno bolognese, Johnny Griffin e Don Byas, un grande sottovalutato, secondo il pianista, e Lee Konitz, quale anello di raccordo con il cenacolo dell’amato Lennie Tristano. L’incontro più formativo, a Roma negli anni sessanta, è, però, quello con Enrico Rava e Gato Barbieri, alfieri di un nuovo modo di guardare al jazz, che mettono in crisi e provocano un cambiamento nello stile di D’Andrea, dal tonale al modale e oltre….La scoperta delle stelle polari, Monk, Ellington, Tristano, avviene in tempi successivi e si concretizza in nuove acquisizioni, in mutamenti graduali e profondi nell’idioma pianistico. Il forte impatto con la fusion di Miles Davis, dei suoi epigoni, e di Jean Luc Ponty, in particolare, favoriscono il passaggio al jazz elettrico, con la costituzione del Perigeo, gruppo di grande risonanza popolare, non accompagnato da uguale fortuna commerciale, causa una gestione finanziaria non proprio oculata da parte di chi stava dietro al quintetto. Dopo la fine del Perigeo e un periodo di crisi psicologica, si assiste al ritorno al piano solo, in un primo momento, e alla ripresa, in seguito, dell’attività in trio e poi in quartetto, con Tino Tracanna, Attilio Zanchi e Gianni Cazzola.


Successivamente, su proposte, spesso, di Paolo Piangiarelli, patron della Philology, D’Andrea incide un buon numero di dischi in solo, in trio con Bosso e Petrella, ad esempio, e in altre situazioni stimolanti, ma che non lo soddisfano in pieno, tanto che, nel 2006/2007, decide di operare soltanto con una formazione stabile e dà un taglio alle collaborazioni più o meno estemporanee. A questo punto si apre la fase recente della sua parabola artistica, segnata da un metodo di lavoro modulare, in cui i musicisti della sua cerchia transitano da un brano all’altro quasi in maniera osmotica, al solo accenno del pianoforte, aggiungendo il peso della loro individualità all’interno di una struttura aperta, progettata nei particolari, però, dal bandleader. Nella musica dell’ultimo D’Andrea si ritrova la tradizione, come elemento vivo e pulsante, e la modernità. In un certo senso si materializza un ponte ideale fra New Orleans e l’elettronica, senza dimenticare il debito verso la musica classica del novecento, con il ricorso alla serialità e l’uso geniale degli intervalli, «per far incontrare la tradizione con l’avanguardia».


Flavio Caprera procede nel suo racconto, riportando, sovente, in virgolettato la testimonianza diretta del pianista e fornendo notizie e valutazioni molto ben argomentate sui dischi significativi della carriera artistica dell’oggetto del suo libro, per qualcuno spendendo poche righe, per la maggior parte provvedendo ad analisi ampie e approfondite. “Franco D’Andrea: un ritratto” è, in conclusione, un testo di agevole lettura, informativo e critico, che viene a colmare un vuoto e e che ci permette di conoscere sicuramente meglio uno dei maggiori musicisti jazz italiani di tutti i tempi.




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