Ujigami: l’incontro tra jazz e progressive nel nuovo disco del quartetto Ujig

Foto: la copertina del disco










Ujigami: l’incontro tra jazz e progressive nel nuovo disco del quartetto Ujig

Ujigami è il nuovo lavoro del quartetto Ujig. Un lavoro concepito all’incrocio tra generi e attitudini musicali: su una matrice che potremmo definire progressive, i quattro musicisti – Edoardo Maggioni al pianoforte, tastiere e al moog, Marco Leo alla chitarra, Konstantin Kräutler alla batteria e Cesare Pizzetti al basso e al contrabbasso – vanno ad inserire elementi provenienti da jazz, musica classica, rock, musica elettronica e world music e costruiscono, così, una sintesi molto particolare arricchita dalla presenza di ospiti prestigiosi come Fabrizio Bosso e la Bow Tie Orchestra.


Gli Ujigami sono i numi tutelari delle comunità secondo la religione shintoista: oltre che per l’assonanza con il nome della formazione, la scelta di questo termine come titolo del disco vuole sottolineare l’idea di proteggere la musica stessa, la creatività e la dimensione più umana e naturale delle nostre esistenze.


Ujig giunge con Ujigami, pubblicato dalla Luminol Records, al suo terzo lavoro dopo “8 Out Of 8” del 2014 e “The Necessity of Falling” del 2018. Abbiamo scelto di approfondire direttamente con i componenti della formazione i percorsi che hanno portato alla realizzazione del disco.



Jazz Convention: Partirei dal titolo del disco e dal nome della formazione: Ujig e Ujigami sono due concetti che si legano a doppio filo e offrono anche un primo spunto per iniziare ad entrare nel vostro nuovo lavoro. Quali sono i significati dei due termini e, soprattutto, quali riferimenti avete voluto mettere in evidenza attraverso le due parole?


Ujig: Il nome Ujig nasce da un brano scritto durante i seminari della Berklee a Umbria Jazz nel 2014, scritto per una jam fatta con Konstantin Krautler ed Edoardo Maggioni una sera ed inserito poi nel nostro primo disco “8 out of 8” (simbolo dell’infinito). È l’acronimo che viene fuori da Umbria Jazz International Group, creato per scherzo, ma il cui suono richiama molto da vicino l’idea e la sonorità del gruppo. Quindi quando decidemmo di trasformare quella formazione in un progetto abbiamo deciso di tenere il nome. Mentre stavamo scrivendo i brani del terzo disco, eravamo alla ricerca di un nome che avesse assonanze con il nome del gruppo e comunicasse anche una idea di profondità, di spiritualità, di ricerca. Cosi ci siamo imbattuti nella parola Ujigami, il cui significato ci ha subito colpito. Gli Ujigami sono degli spiriti di protezione della famiglia e della comunità nella tradizione Shintoista. Abbiamo subito colto l’occasione di prendere in prestito questo nome per battezzare il nostro disco anche perché il tutto avveniva nel pieno della pandemia e questo senso di protezione della famiglia, della musica, della spiritualità offriva una percezione del tutto diversa dai periodi precedenti.



JC: Nelle note che accompagnano il disco, avete sottolineato di voler proporre con i vostri brani anche un “appello alla salvaguardia della musica stessa e della creatività”. La creatività e la dimensione umana delle nostre vite sono diventati così il punto centrale di Ujigami, il fulcro intorno al quale vi siete concentrati per comporre il materiale?


Ujig: La musica per noi è esattamente questo. È l’occasione di essere noi stessi, di realizzare, sia nel momento della produzione che nel live, un momento di relazione attraverso la musica, un’occasione di percepire il “Qui e Adesso”, così centrale nella dimensione e nella prospettiva jazzistica della musica. Lavorando in studio tutti i giorni e avendo vissuto parte della trasformazione tecnologica a cavallo del millennio, abbiamo visto sempre di più prendere piede gli aspetti informatici sugli aspetti prettamente musicali. Tanto da far si che oggi un disco possa essere realizzato anche da persone senza musicalità o comunque con tutto l’arrangiamento eseguito da una DAW (Digital Audio Workstation) e in cui l’unico elemento umano rimane limitato alla voce – ma molto spesso neanche questa viene lasciata intatta. La questione grave è che il pubblico è stato abituato a sentire esecuzioni programmate e quantizzate e ha perso in parte la capacità di godere di una esecuzione umana, almeno per quello che riguarda la musica mainstream. Penso sia fondamentale sollecitare il pubblico a capire che le emozioni e la comunicazione in genere vengono ridotte dalla esecuzione di strumenti programmati e anche il ritmo – cioè il coinvolgimento fisico e psicologico – viene affievolito dalla meccanicità quantizzata di un sequencer che viene spesso scambiata per perfezione ma che di perfetto ha solo il rapporto matematico binario che sta alla base del calcolo. Dato anche il periodo che stiamo vivendo, in cui tramite l’informatica siamo sempre più controllati e meccanizzati, ed in parte schiavizzati, spesso anche volontariamente, crediamo che la creatività e la nostra capacità in qualità di uomini di essere filtri e tramiti del metafisico ci permetta di continuare ad affermare il nostro ruolo nel creato, che oggi viene costantemente messo in discussione, proprio perché noi stessi, a volte, o ce ne dimentichiamo o ci comportiamo in modo diametralmente opposto. E, invece, come gli Ujigami abbiamo il dovere di proteggere non soltanto noi stessi, ma ogni creatura e l’ambiente naturale in cui siamo inseriti.



JC: L’idea di concept-album è uno dei tratti distintivi del rock progressive: come si sviluppa questo aspetto nel vostro progetto musicale, privo di testi e parti cantate?


Ujig: La musica è narrazione, è un racconto senza parole, l’idea del concept, tanto cara al prog, è la possibilità di sviluppare un racconto attraverso le note. Facciamo parte di Luminol Records, una etichetta votata al Prog in senso lato. Il progressive è, insieme alla lirica ed in parte al jazz, uno dei motivi per cui la musica italiana risulta una eccellenza livello mondiale. E, mentre un musicista jazz inserito nel contesto americano ha naturalmente rimandi alla tradizione della musica afroamericana, crediamo che un musicista italiano che fa jazz abbia nel suo DNA tanto l’Opera quanto il Progressive, che in qualche misura sono dei parenti stretti, “generi” in cui gli aspetti narrativi diventano ovviamente centrali. Nel caso di Ujigami abbiamo affrontato un percorso che passa attraverso ritmiche e culture: abbiamo immaginato di unire diverse prospettive sotto il grande ombrello del “jazz” strumentale. Il tutto un po’ sintetizzato dal titolo del brano “Yugen”, parola giapponese che indica la sensazione di stupore e meraviglia di fronte alla scoperta del misteriosa bellezza dell’esistenza.



JC: Qual è stato finora il percorso di Ujig e a quale punto della vostra traiettoria arriva Ujigami?


Ujig: Gli Ujig sono un gruppo che nasce in primis dalla felicità dello stare insieme e dalla gioia di poter vivere di musica. Sono la possibilità di esprimere chi siamo, serenamente, senza la problematica di andare incontro ad una idea di gusto. Ujigami arriva in un momento di maturità personale, tutti siamo abbastanza grandi da poter dire che le scelte musicali siano consapevoli e espressione di una volontà chiara. Essere noi stessi.



JC: Il lavoro sui brani si è intersecato con le problematiche legate alla pandemia. Quali sono state le influenze artistiche e le conseguenze pratiche delle varie vicissitudini sul risultato di Ujigami?


Ujig: La creazione di Ujigami è stata più difficile ovviamente a causa delle limitazioni ma la volontà di portare a compimento il progetto ci ha aiutato ad andare oltre tutte le difficoltà. Abbiamo scambiato idee e musica attraverso i vari mezzi di comunicazione che abbiamo a disposizione e ci siamo trovati tre o quattro volte a suonare tra Vienna e Milano. Ci siamo trovati in due momenti differenti, in estate 2020 e a gennaio 2021, in studio ed in queste due session di registrazione abbiamo registrato due volte il disco e abbiamo scelto poi le versioni migliori dei brani.



JC: I riferimenti musicali presenti nel disco spaziano dal jazz alla world music alla musica classica. Un filo conduttore che viene reso esplicito dalla presenza di musicisti come Fabrizio Bosso o la Bow Tie Orchestra: quanto i vari riferimenti hanno influito nelle scelte fatte nelle diverse fasi del lavoro, dalla scrittura all’arrangiamento e, infine, all’esecuzione dei brani?


Ujig: I nostri riferimenti sono vari… Da Pat Metheny a Tigran Hamasyan, dai Gogo Penguin ai Bad Plus, dagli Snarky Puppy a MonoNeon o Thundercat. La bella musica ci accompagna, grazie al cielo… Noi siamo filtri, facciamo si che la musica che ci piace fluisca tramite di noi e generi qualcosa di nuovo… La collaborazione con Fabrizio Bosso ci ha fatto scoprire oltre al talento anche una persona fantastica, un vero amante della musica. Per quello che riguarda la Bow Tie Orchestra: abbiamo colto una opportunità con “Pohjoinen”, poiché da sempre crediamo nella profonda unione dei generi, cioè che la musica sia una sola e che le differenze siano eventualmente di intenti. E quindi abbiamo voluto creare una sorta di Suite in cui una vera e propria overture orchestrale melodica facesse da preludio ad un brano jazz fusion più tradizionale e tramite transizioni si arrivasse a chiudere il cerchio con il solo di Moog. La Bow Tie Orchestra, che compare anche sul brano “Odota”, ci ha dato l’opportunità di inserire una orchestra vera negli arrangiamenti degli Ujig. Una opportunità a cui difficilmente rinunceremo in futuro. Un riferimento che abbiamo sempre avuto in mente era un brano del grande Eddie Daniels, “Solfeggietto/Metamorphosis”, in cui delle sonorità decisamente romantiche venivano giustapposte a sezioni di jazz classico. Altri riferimenti sono stati “Silva” degli Snarky Puppy o alcune parti del “Pelleas et Melisande” di Debussy in cui sonorità jazzistiche di là da venire già trasparivano in una Parigi di inizio Novecento.



JC: E, in questo senso, diventa naturale la domanda più spigolosa. Come si declina oggi, il linguaggio del rock progressive? Un linguaggio che, nel corso degli anni, è diventato a sua volta riferimento per diversi progetti di stampo jazzistico…


Ujig: Che domanda… ribadisco che del progressive forse ci piace di più l’aspetto narrativo. O meglio forse il progressive è nell’ambito dei generi popolari quello che ha inserito più elementi di “musica colta”. Forse oggi non si declina più il concetto di progressive degli anni ’70 e ’80. Ma dato che la competenza di chi studia musica è cresciuta esponenzialmente negli ultimi venti anni, ci troviamo di fronte al naturale sviluppo derivato dalla possibilità di inserire elementi musicali più evoluti in sostegno di una maggiore capacità espressiva. Nel nostro caso siamo stati affascinati dal concetto di micro-timing e cioè la suddivisione del quarto in gruppi dispari come in “Tano” o “Ehiku” e dal ritmic layering, che fa muovere differenti metri contemporaneamente all’interno della battuta, strumenti che permettono la rivoluzione percettiva di un semplicissimo 4/4. Cosi forse oggi non siamo più “prog” ma siamo più coscienti di tutti gli strumenti espressivi a disposizione della musica.



JC: Una “conseguenza” dei tanti riferimenti portati nel disco, sono i titoli scelti per i brani, titoli ripresi da lingue diverse e riferiti a parti del mondo diverse. Come avete scelto i titoli, seguito le ispirazioni che portavano con sé?


Ujig: Attraverso i vari dischi. abbiamo sempre usato le diverse lingue del mondo per creare l’idea che l’uomo è uomo e che la Babele delle Lingue è una finta separazione, una separazione che non deve dividerci più di tanto. La musica è una lingua universale e come tale anche i nomi della musica devono in qualche modo esserne un riflesso. I titoli sono scelti sempre o per le sensazioni che la musica descrive o per le caratteristiche ritmiche, come a de esempio “Gnawa”, riferito ai ritmi tipici del Nord Africa.



JC: Diversi momenti di Ujigami hanno un passo cinematografico: avete mai pensato ad un progetto che potesse coniugare musica e immagini?


Ujig: Avendo creato il Bluescore Studio di Milano e continuando a lavorare lì, Marco Leo ha da sempre scritto musica per il Sync con le immagini. Ed in questo senso la musica degli Ujig ha sempre suggestioni legate a immagini più o meno percepibili all’ascolto. Uno dei parametri che ci fa intuire se un brano funziona o meno, è la sua capacità di evocare immagini ed emozioni. Ci farebbe piacere in futuro lavorare anche su questi aspetti, anche se come sempre definire significa limitare, quindi scegliere una immagine, limita la possibilità della nostra mente di crearne di nuove. La differenza è come leggere un libro o guardare un film: forse oggi come oggi siamo fin troppo poco abitutati a godere della musica senza il supporto della vista. Ci piace l’idea che sia lo sguardo interiore dell’ascoltatore a creare l’immagine ascoltando la nostra musica.



JC: La promozione di un disco è cambiata drasticamente a causa della pandemia: quali sono i passaggi che avete scelto per fare arrivare Ujigami agli ascoltatori?


Ujig: Per quello che riguarda la promozione e diffusione on line ovviamente dobbiamo sottostare al ricatto portato avanti dai vari Spotify o Apple Music o Amazon Google e chi più ne ha più ne metta: realtà che fondamentalmente guadagnano milioni di euro alle spalle dei piccoli artisti che sono obbligati a diffondere la musica attraverso questi canali, senza fondamentalmente percepire alcun guadagno. Cosi pure il ricatto di molti distributori digitali che non ripartiscono i fondi in modo corretto. La cosa che più ci fa riflettere è che ad oggi non esista un controllore super partes che possa monitorare questi sistemi e controllare veramente i numeri che questi colossi del business riportano. Quindi oltre al mondo digitale, per il quale come potete intuire non nutriamo particolare stima o fiducia, abbiamo deciso di stampare anche delle copie fisiche – compact disc ad ottobre 2021 e vinili a gennaio 2022 – per la distribuzione fisica. Per quello che riguarda la promozione mezzi stampa ci siamo affidatii alle sapienti mani di Danilo Durante che ci sta aiutando tantissimo nel promuovere la nostra musica sulla carta stampata e sui mezzi di comunicazione.



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