Billy Hart Quartet @ Piacenza Jazz Fest 2021

Foto: Archivio Fabio Ciminiera










Billy Hart Quartet @ Piacenza Jazz Fest 2021

Piacenza, Sala degli Arazzi di Galleria Alberoni – 10.10.2021

Il Piacenza Jazz Fest, giunto alla meritata maggior età, si conferma solido, coerente ed intelligente, come non molte altre rassegne sul territorio nazionale. Il merito, innanzitutto, all’infaticabile Gianni Azzali direttore artistico e factotum del festival. Riuscire ad organizzare, e mantener in vita, oggi da queste parti, un festival jazz come il Piacenza Jazz Fest ha qualcosa di “eroico”. Degno di nota il programma, vicino alla conclusione ma non perdetevi le interessanti ultime date (23 e 24 ottobre), con una dozzina di concerti “maggiori” distribuiti nel corso di oltre un mese, diverse ulteriori date gratuite, proiezioni di filmati e convegni. Di grande attenzione anche le scelte musicali nel tentativo, credo riuscito, di accontentare un pubblico più ampio e non eterogeneo; centrata l’idea dei doppi set, obbligati dal distanziamento, e delle date di maggior richiamo nei fine settimana per invitare a fermarsi e conoscere un territorio.


Il quartetto di Billy Hart è una formazione assai rodata, con all’attivo un ventennio di concerti e tre album, tutti per la tedesca ECM. È però, perlomeno per chi scrive, una formazione paradossalmente “occasionale”, cui manca un’idea forte e coesa di cosa possa essere il jazz contemporaneo. Billy Hart è stato, e rimane, un grande batterista e didatta che del leader non ha forse mai avuto né il temperamento e neppure il desiderio. La leadership è allora delegata, di fatto, ad Iverson: mente pensante, direttore artistico e autore dei brani più freschi e originali. È lui che dà gli attacchi e le chiuse, assiste Hart nei momenti di difficoltà e, per sommo rispetto e personale sensibilità, si adatta totalmente e senza troppe difficoltà al jazz anni ‘50-’70 tramandato da Hart. Del pianista, che firma tre brani su sei, è l’iniziale blues lento dedicato ad Hampton Hawes, pianista stimatissimo studiato e rivalutato da Iverson. Il riferimento alla tradizione è qui scoperto e voluto e la memoria corre al dedicatario e ad Horace Silver maestro della forma blues. Il successivo, cameristico Mark’s Tune (composto da Mark Turner) è asettico e lieve, come gran parte della musica del quartetto. Costruito su un vamp di basso trae interesse dai continui stop e ripartenze. Il pianismo accordale di è tutto giocato nella parte centrale della tastiera con linee molto bluesy, brevi e fluide. Qui, come sovente altrove, il drumming di Hart è eccessivamente in evidenza e in qualche modo sfasato rispetto al temperamento del brano con una evidente, legittima difficoltà nella gestione delle dinamiche. Il “Tone Poem” Layla Joy (firmato da Hart) è delicatissima ballad oltrechè uno dei momenti migliori del concerto; dedicata da Hart alla figlia è aperta dai mallet in pianissimo e tutto il brano sarà poi condotto magistralmente da Turner e Iverson tra il melanconico e l’astratto. Il suono del tenore di Turner, la totale assenza di vibrato ci ricordano come nella musica europea fosse pensato come un violoncello. Iverson pesca nella cultura musicale delle due sponde dell’Atlantico, Ben Street tace per tutto il brano. Dimenticabile, per le mie orecchie, il neo hard-bop di Irah (brano di Iverson) vetrina (opaca) per il contrabbasso di Ben Street: legnoso, frenato ai limiti dell’afonia e dall’articolazione piuttosto limitata. Salvato dal solo luminoso del pianista, da compositore diremmo, su un brano ritmicamente molto articolato con una gustosa coda “scritta” su misura per Hart. A parte il mantra declamato dal leader in apertura, poco comprensibile quanto inutile, Neon (a firma del pianista) è la composizione più fresca e originale di tutto il concerto. Dopo la lunga intro di batteria, memorabile per l’energia e la baldanza giovanile, compare il tema tra il marziale, di soldatini giocattolo, e il danzante; quando questo si scioglie lascia spazio al solo di Turner sul distillato pianistico e il ticchettio delle bacchette di Hart. Il finale Showdown (ancora di Iverson) dopo l’intro pianistica, che pare uscita da una bettola d’altri tempi, viene esposto il tema, canzone pop di non eccelso livello, esageratamente lirico ed insaporito da frequenti stop and go. Sarebbe musica da intrattenimento, ma Iverson è musicista troppo intelligente, colto e disincantato per essere sincero; ed allora riempie il brano di trappole armonico/melodiche a ricordarci che non dobbiamo, forse non possiamo più, prenderci troppo sul serio. In questo Showdown è accademia, è manierismo puro. Sta forse qui la sua modernità?



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