Luca Dell’Anna. Un pianoforte colorato di mille sfumature

Foto: Archivio Fabio Ciminiera










Luca Dell’Anna. Un pianoforte colorato di mille sfumature


Qualche giorno dopo il concerto tenuto da Luca Dell’Anna al pianoforte e Gabriele Boggio Ferraris al vibrafono, ho avuto modo di incontrare i due musicisti per una chiacchierata informale a suon di jazz. Ne sono venute fuori due interviste – convergenti e parallele – che raccontano i percorsi, le curiosità e le influenze dei due musicisti. Questa settimana, pubblichiamo l’intervista con Luca Dell’Anna: nei prossimi giorni, sarà online quella realizzata con Gabriele Boggio Ferraris.



Jazz Convention: Sono diverse le cose interessanti che hai fatto nella tua carriera musicale… Cominciamo con la tua storia.


Luca Dell’Anna: Sono nato a Ferrara nel 1975, non mi sono diplomato in conservatorio con il vecchio ordinamento, in realtà ho fatto quello che una volta si chiamava il compimento inferiore, poi ho preso lezioni private di jazz, ho studiato all’Università della Musica di Roma. Mi sono dedicato allo studio del jazz intorno ai 19 anni. Il mio primo insegnante di jazz è stato un pianista di Pordenone, Bruno Cesselli, un grandissimo musicista che probabilmente non ha il riconoscimento che merita. Poi ho studiato con Andrea Beneventano, altro pianista di cui non si parla tantissimo ma anche lui è fenomenale. Avevo un cognato musicalmente onnivoro che mi ha fatto scoprire artisti di tutti i generi, da Jimmy Smith a Tom Waits ai Metallica: quando ero ancora un ragazzino, per mezzo di questa persona, mi è arrivata addosso una quantità tale di musica che ho cominciato ad immagazzinare. La mia passione per la musica afroamericana è cominciata prima con il blues e poi, pian pianino, sono arrivato al jazz.



JC: Qual è stato il primo disco di jazz che ti ha colpito?


LDA: Il mio primo grande amore jazzistico – per quanto riguarda il pianoforte – è stato Michel Petrucciani… più che un disco, in realtà. il mezzo è stato un concerto dal vivo trasmesso da Raidue – un concerto registrato in duo con il padre, Toni Petrucciani alla chitarra, a Umbria Jazz, nei primi anni novanta – che avevo registrato su una videocassetta e riguardavo di continuo come se fosse un viatico verso la conoscenza. Prendendo poi le mosse da Petrucciani, a me piace il pianismo con quello stile molto chiaro, molto netto. Naturalmente, il mondo del pianoforte jazz è gigantesco e ci sono, oggi, mille tendenze: attraverso Petrucciani sono arrivato ad apprezzare un tipo di pianismo molto asciutto e molto definito, ad esempio con il suo tocco molto forte e cristallino, le frasi ben definite, le note molto chiare. La sua mano destra, ad esempio, è stata assolutamente unica, peculiare.



JC: Ti sei trasferito a Milano, poi…


LDA: Si, nel 1999, per l’esattezza. Le mie prime esibizioni le ho fatte, ancora a Ferrara, con un gruppo di amici dei tempi del liceo: suonavamo musica grunge, era quello il periodo ma la tastiera, in un gruppo rock dalle sfumature metal, è poco divertente. E poi via via come sono cambiati i miei ascolti, sono cambiate anche le formazioni con cui suonavo: ho iniziato a suonare funk, fusion e cose di questo genere. Arrivato a Milano, ho iniziato a prendere parte alle jam session che si facevano in un locale chiamato Ittolittos, dove Paolo Tomelleri aveva una residenza artistica e dove si ritrovava anche la comunità cubana.



JC: Tra le tue esperienze musicali, ci sono state diverse esibizioni all’estero…


LDA: Si, ho avuto la fortuna di suonare in molti posti fuori dai nostri confini: Giappone, Cina, Canada, Etiopia, ho suonato molto in Danimarca, ho girato un po’ l’Europa dell’Est. La persona con cui sto collaborando di più a livello internazionale – ed è anche un carissimo amico, una persona molto importante, in generale, per la mia vita – è Adam Rapa ed è un trombettista statunitense di Boston, molto conosciuto tra i trombettisti perché ha una tecnica fenomenale anche se poi, per certi aspetti, non è troppo considerato dalla comunità jazzistica perché esce dalla tradizione dei “drum corps” (le formazioni statunitensi che fanno le coreografie negli stadi) che è una vera e propria fucina di talenti visto che hanno una preparazione praticamente marziale e si fanno un mazzo enorme, per dirla in gergo. Adam viene da questo mondo ed è molto riconosciuto a livello tecnico, suona anche molta musica classica. Ho avuto la fortuna di essere coinvolto nei suoi progetti e poter suonare un po’ ovunque. E siccome lo invitano spesso a tenere delle masterclass, succede che poi organizza dei concerti in suoniamo in duo o con altri combo.



JC: Poi, sempre a proposito di trombettisti, c’è stata la collaborazione con Dave Douglas…


LDA: L’anno scorso, durante il Covid, ho conosciuto indirettamente Dave Douglas. Insieme a Gabriele Boggio Ferraris e al collettivo dei musicisti dell’etichetta UR Records (fondata appunto da Gabriele e di cui faccio parte anch’io dal momento che ho pubblicato un disco con UR Records), abbiamo realizzato un disco, ognuno a casa propria visto il periodo, in cui c’ero io e c’era anche Dave Douglas. I proventi del lavoro sono andati poi all’Ospedale di Bergamo. Nel disco, intitolato “When”, si possono ascoltare sette brani composti da altrettanti musicisti: ognuno ha distribuito le parti agli altri musicisti che poi hanno registrato separatamente le varie tracce con i mezzi a disposizione in quel momento. Queste tracce sono state poi assemblate in fase di missaggio ed è venuto fuori poi il lavoro che è stato pubblicato a nome dell’UR-Kestra con due ospiti internazionali come Dave Douglas e Steven Bernstein (il disco si può ascoltare anche su bandcamp al seguente link: https://ur-kestra.bandcamp.com/album/when).



JC: Di recente, ti ho ascoltato suonare dal vivo insieme al vibrafonista Gabriele Boggio Ferraris: sono rimasto molto colpito dal vostro suono. Avete qualche progetto in cantiere?


LDA: Questo nostro duo è attivo da qualche tempo e vogliamo fare le cose al meglio. Ci piacerebbe registrare entro l’anno prossimo e dare una realtà più concreta al progetto. A mio nome ho già pubblicato tre dischi, due in trio e uno in quartetto: il più recente, “Human See, Human Do” è ormai del 2018 e quindi è tempo di proporre qualcosa di nuovo.



JC: A tuo avviso, quali sono oggi le direzioni del jazz?


LDA: Secondo me, il jazz adesso va un po’ dappertutto, molto più di prima. Quello che sta succedendo in quest’ultimo periodo – intendo, a tutti i livelli, non solo per quanto riguarda il jazz, la musica o le arti – è che si può avere ogni cosa e in qualunque momento. Pensa alla diffusione di internet, alla globalizzazione e al fatto che si possano reperire informazioni di ogni tipo: un appassionato di qualsiasi cosa, trova il suo terreno fertile. Dal dixieland all’avanguardia, dal bop al post-bop, c’è tutto e ogni ascoltatore può andare a fondo dietro ai suoi gusti e in quantità smisurate. Se poi mi chiedi se ci sia oggi una tendenza principale che si porta dietro le altre, ti rispondo che, in realtà, il tratto dominante è la commistione di tutte queste correnti. In realtà, si sta atomizzando tutto, si sta andando in tutte le direzioni contemporaneamente. È anche una cosa bella, per certi aspetti: è come se si stesse cristallizando il tempo, c’è solo il momento attuale.



JC: E i tuoi ascolti? I dischi che compri?


LDA: Ho preso di recente un lavoro di Gonzalo Rubalcaba, il più grande pianista cubano vivente e uno dei miei amori musicali, in trio con Ron Carter e Jack deJohnette: il disco si chiama Skyline ed è davvero un gioiellino. Rubalcaba ha una preparazione classica completa e perfetta e viene poi dalla formazione musicale cubana che è di stampo, a tutti gli effetti, sovietico, visto che appartiene ancora alla generazione che ha vissuto in pieno la Cuba di Fidel Castro. È un musicista di enorme disciplina e tecnicamente è fenomenale.



JC: Come hai vissuto il lockdown? Un periodo che sembra venuto fuori da un film di fantascienza e che per i musicisti è stato sicuramente difficile sotto molti punti di vista…


LDA: Ognuno se l’è vissuto male a suo modo. In qualche modo ho invidiato quelli che si annoiavano: con una figlia di un anno e mezzo a casa, con l’asilo chiuso, e la mia compagna che lavorava. Tanti si sono annoiati, mia figlia s’è divertita un mondo, ha visto una quantità di cartoni animati enorme, anche se ha assorbito pure lei la tensione di un momento davvero difficile. Intanto, ne siamo usciti vivi come famiglia e rafforzati come coppia: non è stato un periodo facile ma, a noi, tutto sommato è andata bene.



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