Il secolo del Jazz

Foto: da internet





Il secolo del Jazz




Al MART di Rovereto si è da poco conclusa una mostra decisamente singolare e connotata: “Il Secolo del Jazz”. E l’impossibilità di trovare una parola chiave per iniziare la narrazione di questo evento è perfettamente simmetrica alla sensazione di smarrimento avvertita dai visitatori una volta superato l’ingresso, soprattutto da quelli che minimamente conoscono e amano il jazz. Mostra emozionante, ricchissima, seppure a volte eccessiva nell’esposizione e in qualche modo caotica.


L’idea parte dal critico d’arte e finissimo analista della materia jazz Daniel Soutif, che incontra un giorno la direttrice del Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Rovereto Gabriella Belli e con lei idea un percorso che faccia del XX Secolo, in senso artistico, non solo il periodo identificabile con le Avanguardie e il Cinema ma anche e soprattutto quello nel quale l’elemento musicale “nuovo” si pone come costante intersecando tutti gli aspetti dell’Arte: letteratura, pittura, cinema, fotografia, grafica, animazione. Per Soutif il Jazz è “una musica magnificamente musica, gioiosa o triste, ballad o blues, corposa un giorno, evanescente l’altro, trionfale o delicata, tonitruante o soave secondo l’umore, ma sempre con questo particolare ritmico – sincope, swing, tensione-distesa – e sempre anche con quest’altra peculiarità che non esclude né il pensiero, né la preparazione: l’improvvisare dal minimo al tutto, ma comunque sempre là (…).”


Un’affermazione puntuale ma quasi impulsiva, come se prevalesse l’entusiasmo del jazzofilo anche rispetto alle premesse scientifiche che dovrebbero solitamente precedere la realizzazione di una mostra. Credo sia questo il motivo che ha determinato qualche pecca nella collocazione delle opere e nell’individuazione del percorso espositivo: tantissimo materiale, assolutamente esaltante per chiunque ami il jazz, ma da riempirci almeno tre mostre, ognuna delle quali con un fil rouge concettuale logico e rimarcabile. Ma è l’unico difetto: tutto il resto è emozione pura. E le opere citate qui di seguito non sono che una parte infinitesimale di ciò che realmente era esposto.


Il sottotitolo della mostra “Arte, cinema, musica e fotografia da Picasso a Basquiat” è certamente un indicatore ma risulta assai riduttivo. Appena superato l’ingresso infatti il cuore inizia a battere in modo compulsivo alla vista di un piccolo monitor che restituisce spezzoni di un cortometraggio di Georges Meliès (lo stesso del famoso “Viaggio sulla Luna”) o del dipinto prestato dal Guggenheim di Venezia “Composition in Gray (Rag-Time) del 1919: la rappresentazione grafica di un suono puntuto grazie a forme geometriche e all’uso del chiaroscuro.


Si prosegue con l’Autoritratto di Man Ray – perfetta commistione di curve e vertici e con i bellissimi, significativi ritratti di Carl Van Vechten: Billie Holiday, Bessie Smith, Ethel Waters e Langston Hugues, tra gli altri. Purtroppo le targhette che li identificano sono posizionate tutte alla fine della parete in modo confuso, creando a chi non conosce già i personaggi più di un dubbio. Dopo Archibald Motley, antesignano di Edward Hopper, e il suo quadro coloratissimo (i colori vivaci sono un topos che ricorre spesso nei dipinti che raffigurano i jazzisti e i Clubs) e il tratto grafico di Winold Reiss troviamo la “Sala da ballo” di Otto Dix (1928) e il marinaio dall’espressione alienata di George Grosz, per poi accedere in un chilometrico corridoio completamente percorso da teche, e sulle teche piccoli monitor lcd che restituiscono immagini di session storiche. Nelle teche, locandine di serate con Dizzy e Coleman Hawkins, inviti per le serate di “Poesia y Jazz” dell’Hot Club di Barcellona, la copertina di Pithecantropus, gli album di Charlie Parker per la Savoy prestati dalla Biblioteca Audiovisiva di Parigi, copertine della rivista americana Life dell’epoca e molto altro. Sulla parete alle spalle, Keith Haring e il suo tocco essenziale per Montreux Jazz 1983.


In una saletta attigua il batticuore aumenta scoprendo la “Composition no. 12 with blue” di Mondrian, l’Hot Club di Jean Dubuffet e il famosissimo “Jazz 1943″ di Matisse; un po” più in là ecco Pollock e il suo “Watery Paths” del 1947. Spirali dolenti e viluppi, un quadro bebop. In un paio di sale attrezzate, spezzoni di film a tema, dal prevedibile “Ascenseur pour l’échafaud” a “Mezzogiorno e mezzo di fuoco”, “L’Idolo delle Donne”, “La Notte”, ma soprattutto gli splendidi cartoni animati Merrie Melodies e Looney Tunes di Fritz Freleng (uno su tutti: “The Three Little Bops”). Altra parete nobilitata dalle fotografie di Roberto Masotti (magnifica quella di Han Benninck a Berlino nel 1976 e l’espressione raccolta di Steve Lacy) a cui, sempre proseguendo, fa seguito quella completamente tappezzata dalle istantanee di Guy Le Querrec e, esattamente di fronte, i ritratti caricaturali di Albert Oehlen.


Il comparto dedicato alle copertine dei dischi jazz meriterebbe davvero una mostra e una presentazione a sé: da quella visionaria di Bitches Brew alla grafica iconoclasta per Sun Ra Arkestra, fino a quelle create attorno ai magnifici scatti di Lee Frielander. Nella sezione “Contemporanea 1960-2002” troviamo “King Zulu 1986” di Basquiat, l’ostinazione a raffigurare il jazz con colori forti (Colescott) e per contro la perfetta sintesi di Pino Pascale che sceglie due labbra rosse in rilievo dipinte a smalto su legno nero, per un omaggio a Lady Day.


La mancata segnalazione del pur esistente percorso concettuale fa in modo che a questo punto il visitatore, proseguendo, si trovi nell’area dedicata alla Rivoluzione Free – dove spiccano capolavori come il Décollage di Mimmo Rotella, gli scatti intensi di Giuseppe Pino (talvolta densi di pathos come nel caso di Coleman Hawkins) e Alan Davie con “Lush Life no. 1”. Un monitor alla parete trasmette la realizzazione cinematografica sperimentale di Pier Paolo Pasolini “Appunti per un’Orestiade africana”. Verso l’uscita si possono apprezzare ancora il “Boogie Woogie” di Renato Guttuso e – a ritroso – il “Ritratto di Musicista” di Thomas Hart Benton, un Francis Picabia del 1924 e il sublime Fernand Léger con il quadro del 1930 “Jazz (Variante)”.


Davvero un peccato che molti dei visitatori siano rimasti dubbiosi sul percorso, condizionando in questo modo la propria visione d’insieme. La cosa buona è che, una volta arrivati all’uscita, esisteva naturalmente la possibilità di ricominciare da capo ordinando in modo personale idee e materiale da rivedere. Molti di noi quel giorno hanno incrociato gli sguardi diverse volte, ed era piacevole verificare e mettere a confronto le strade mentali di ognuno.


Eravamo tutti entusiasti, jazzofili e con il cuore a mille. E tutti auspicheremmo molti più eventi di questo tenore, nel tempo a venire.