Slideshow. Dino Plasmati

Foto: Fabio Ciminiera










Slideshow. Dino Plasmati.



Il chitarrista Dino Plasmati è reduce dalla bella esperienza del disco Interactions per la Universal in compagnia del suo Open Trio con Massimo Manzi alla batteria e Giorgio Vendola al contrabbasso, più Gaetano Partipilo al sax alto come ospite in alcuni brani: dieci pezzi tutti firmati da Plasmati stesso, che ribadiscono la grande stagione che sta vivendo il jazz italiano odierno. Tra un impegno e l’altro siamo riusciti a catturare Dino, per una serie di riflessioni sulla propria carriera e sullo stato di salute del jazz contemporaneo nel mondo, in Italia e persino in Basilicata, dove vive, crea e lavora.



Jazz Convention: Subito una domanda a bruciapelo: esiste, per Dino Plasmati da Matera, un’identità forte del jazz del Sud Italia? O addirittura del jazz lucano?


Dino Plasmati: Il sud Italia è ricco di tanta musica, di tante culture che hanno transitato per le nostre terre e hanno influenzato la musica nei suoi vari stili, dal folk al popolare al jazz. Spesso si sente parlare di jazz mediterraneo, un certo tipo di jazz che accoglie in sé gli umori e i suoni dei nostri territori, opportunamente mescolati a quelle che sono le essenze del jazz americano o di matrice europea. Credo sia un po’ questa l’identità che si stia affermando nel sud Italia e che ancora in Lucania non si è delineata del tutto. Io personalmente, ho incominciato nel 2006 a pensare al jazz più vicino al nostro sentire, più vicino al nostro essere musicisti di jazz italiano (o… musicisti italiani di jazz!), quando ho registrato con Javier Girotto, Luciano Biondini, Giovanni Maier ed Ettore Fioravanti, “Viaggio nelle terre dei Lucani”, edito dalla Wide Sound. Un progetto originale di mie composizioni scritte sull’immagine di dieci luoghi tra i più suggestivi del nostro territorio.



JC: Ad ogni buon conto, si può anche parlare, al giorno d’oggi, di musica mediterranea, un sound insomma che accomuna differenti realtà etnico-socio-culturali?


DP: Certo, la musica mediterranea è molto viva e ricca di grande varietà sonora. Si pensi alla musica che proviene dalla Sicilia, dalla Sardegna, da Napoli eccetera… Il jazz, in alcuni casi accomuna svariate realtà etnico-socio-culturali, e questo, oggi, può renderlo ancora originale e scevro da omologazioni. Si è, però, ancora molto reticenti verso ciò che può essere un modo nuovo o diverso di rivitalizzare il nostro jazz.



JC: Dino, laurea in Lettere, diploma di Conservatorio, come tanti altri jazzmen soprattutto europei (ma di recente anche diversi afroamericani): dunque cominci da una posizione dotta o colta che dir si voglia. Quanto influenza – ovviamente dal tuo punto di vista – una cultura accademica sul fare un’arte (il jazz) da sempre simbolo di libertà e trasgressione?


DP: La cultura non ha mai fatto male ad alcuno! Studiare fa bene, arricchisce la nostra anima oltre che il nostro intelletto. Il jazz si nutre di cultura, ed è esso stesso cultura. Credo che libertà e trasgressione siano fortemente interconnesse con il sapere. Non esiste la trasgressione se non si conosce la regola! E in questo caso per regola, al giorno d’oggi, intendo la cultura accademica. Il jazz da sempre ha guardato alla cultura, al sapere in generale, come momento di crescita e di arricchimento interiore. I musicisti, che si sono avvicendati nel corso degli anni, di certo non erano “ignoranti”. Ted Gioia nel suo libro L’arte imperfetta, ci racconta che Coleman Hawkins, tra i primi tenoristi della storia del jazz, studiò musica al college, così come Chu Berry, Don Redman; altri come Alphonse Picou, Lorenzo Tio avevano studiato la tradizione europea della musica classica e avevano impartito le loro lezioni ai clarinettisti jazz più giovani. Tra i contemporanei si pensi, ad esempio, a Joshua Redman, che tra l’altro possiede una laurea in Sociologia… Il mio parere è che oggi i musicisti cercano sempre più di acculturarsi e certo questo può giovare al jazz, spesse volte identificato solo come musica istintiva, e per questo spesso bistrattato da chi intendeva la musica come scienza e non solo come arte.



JC: Non a caso nel tuo curriculum c’è anche molta musica scritta, per balletto o per il cinema e la televisione. Come ti approcci a questi altri modi di creare rispetto al jazz?


DP: Il jazz sottende alla mia creatività e a tutta la mia produzione. Ho scritto tanti brani per balletto classico, danza contemporanea, per la televisione eccetera… La mia musica è il jazz e tutto ciò che è interconnesso al suo mondo; scrivere per altri ambiti della sfera musicale, non mi allontana dal mio modo consueto di scrivere… Ovviamente, la cultura classica o contemporanea, che fa parte del mio bagaglio culturale, o gli altri stili più moderni che appartengono al mondo della cultura afroamericana, di tanto in tanto si fanno sentire e questo arricchisce il mio modo di comporre anche in ambiti non propriamente jazz.



JC: Difficile fare il critico di se stessi, ma se tu dovessi definire il tuo jazz, quali aggettivi, quali parole useresti?


DP: E’ molto molto difficile autodefinirsi! Non saprei proprio… Credo di essere molto vicino al modern jazz, con aperture alla pura creatività. Sono attratto dal free di Ornette, dalla musica viscerale di Coltrane e dalla spiccata melodicità di Chet!



JC: Come vivi il rapporto tra scrittura e improvvisazione?


DP: Molta mia musica è improvvisata, nel senso che a volte la scrittura è solo il pretesto per poter creare degli ampi spazi su cui improvvisare al momento. Oggi però si assiste, in progetti ben definiti, ad un recupero della scrittura a scapito dell’improvvisazione pura. Si tende a scrivere anche gli assoli per avere la perfezione dell’esecuzione o rendere la vera idea del compositore. A mio parere, questo va un po’ a scapito del jazz e della sua vocazione alla libera improvvisazione. Anche quando scrivo per la danza o per la televisione, musica che deve essere un po’ più canonica e “imbrigliata”, c’è sempre lo spazio necessario per l’improvvisazione.



JC: Mi sembra che dai tuoi dischi, oltre la cura (fondamentale) per il suono e le musiche, esiste pure una forte pregnanza di contenuti storico-letterari: come si conciliano le due esistenze? Hai un messaggio preciso da trasmettere?


DP: La musica racconta, descrive, parla alla gente. Mi piace spesso rifarmi alla storia o alla letteratura come contenitori da cui attingere ispirazione e raccontare. Cerco di essere molto attento al mio suono, alla ricerca di sonorità particolari, alla scelta di determinate armonie piuttosto che altre, alla scelta di determinati musicisti, che si addicono più al tipo di jazz che andrò a eseguire per quel determinato progetto, piuttosto che altri… Tutto ciò mi spinge ad essere nelle cose e assetato di conoscenza. In molti miei concerti si vedono immagini proiettate alle mie spalle, immagini che possono evidenziare bene la storia di quel brano che vado ad eseguire, per avere ancor più una completezza sensoriale. Credo che il pubblico sia interessato a conoscere gli elementi che concorrono alla creazione di un brano o alla sua esecuzione…



JC: Parlando invece del tuo strumento, hai modelli di riferimento: a me sembra che tu abbia positivamente assorbito, in maniera assai personale, le modalità tanto della musica classica quanto di quella afroamericana…


DP: Una cosa di sicuro posso dire, è che non ho un solo riferimento, un solo mito. Ascolto tantissimo jazz, ma anche altro, e non mi sono mai fossilizzato solo su una parte di esso. Il mio approccio chitarristico si avvicina più agli strumenti a fiato, che alla chitarra in senso stretto. Adoro i pianisti sia europei che americani, come Bill Evans, Brad Meldhau e altri; certi sassofonisti (pochi quelli veramente originali!) mi ispirano molto. Avendo studiato anche la musica classica, di certo attingo di lì, naturalmente! In molti miei brani si sentono passaggi che appartengono, ad esempio, alla scrittura di Villa-Lobos o di Bach, e che avendoli fatti miei, si fanno vivi alcune volte nella composizione o nel fraseggio. Proprio come si fa con i patterns del jazz!



JC: Quali sono i chitarristi d’oggi che più ammiri, se vuoi distinguendo tra americani, europei e italiani.


DP: Tra i contemporanei adoro Jim Hall e Pat Metheny; ascolto con grande piacere John Scofield, Adam Rogers, Kurt Rosenwinkel, Bireli Lagrene, Ulf Wakenius, Philippe Catherine, Bebo Ferra, Eddy Palermo… Del passato, il chitarrista che ha inciso sulla mia formazione e ascolto molto è Wes Montgomery.



JC: Ci sono tre-quattro dischi che ti porteresti sull’isola deserta?


DP: Di certo porterei con me: “Kind of Blue” di Miles, “Interplay” di Bill Evans, “A love supreme” di Coltrane, “Free Jazz” di Ornette… Posso portarne altri?



JC: Certamente, ma per tutti le liste sarebbero infinite. Cambiamo invece discorso. Tu vivi in una città e in una regione – molto belle tra l’altro – che d’estate si animano per i festival, ma che nel resto dell’anno sembrano dimenticate dai media. Come vivi quotidianamente la realtà della cultura in Basilicata? E’ davvero una terra lontana o di confine come vogliono dipingerla certi luoghi comuni?


DP: Io vivo molto bene nella mia città e nel mio sud. Matera è una città ricca di cultura, di arte. Ci sono tante associazioni che si occupano, durante tutto l’anno, e non solo d’estate, di arte, di musica, di teatro etc. Assistiamo a tanti eventi culturali nella nostra città. Ovviamente, i media a volte sono presi da altro e non sempre si ricordano di vedere cosa avviene nella nostra regione anche nei mesi invernali, dove c’è un bel fermento culturale. Io ed un gruppo di amici musicisti abbiamo creato un’associazione, MIFAJAZZ, che si occupa di jazz e della sua diffusione. Dal 2006 abbiamo dirottato i nostri sforzi sulla LJP big band, un’orchestra molto attiva che ospita tanti nomi del panorama musicale internazionale. Insieme a loro abbiamo creato il Festival Internazionale Mifajazz Big Band, un intero festival-raduno di big band provenienti dall’Italia e dall’Europa, che ha riscosso notevoli consensi di pubblico e di critica per propagandare la musica per big band e la stessa formazione… Ci avviamo alla seconda edizione estiva! Siamo impregnati di tante cose che hanno a che fare con la cultura e con l’interazione tra culture e arti. La Basilicata, è viva, ricca di saperi e da tempo si è scrollata di dosso l’appellativo di terra di confine!



JC: Puoi parlarci dei tuoi prossimi impegni musicali e dei futuri progetti?


DP: Ho un quartetto con Michael Rosen, con cui lavoro spesso in giro per l’Italia, un progetto originale su musiche mie e di Michael; il mio Open Trio, formato da Giorgio Vendola e Massimo Manzi, con cui portiamo in giro il progetto registrato nel cd “Interactions” (EmArcy/Universal). Come dicevo pocanzi, dirigo la Ljp Big Band e con essa lavoriamo durante tutto l’anno con tanti ospiti e tanti repertori. A gennaio 2010, ho preso parte alla registrazione del disco con la cantante brasiliana Rosa Emilia Dias; poi registreremo un disco in duo con Michael Rosen… In giugno ci sarà un piccolo giro di concerti a Toronto oltre che in alcuni festivals italiani e poi… tanti clubs!