Abeat Records – 2022
Mario Rosini: arrangiamento, composizione, pianoforte, voce
Duni Jazz Choir Choir
Sara Rotunno, Grazia Lombardi, Chiara Ceo: soprani
Desiré Colangelo, Badria Razem, Annamaria Carrieri: contralti
Emanuele Schiavone, Vito Giammarelli: tenori
Nicola Lazazzara, Gianluca Convertino: bassi
Voci in Love collision: Gianni Rosini, Pietro Nannucci, Tom Ozzy
Andrea Corrado: chitarra
Francesco Lacapra: basso elettrico
Francesco Rondinone: basso elettrico
Tony Santoruvo: tromba
Gianfranco Menzella: sassofoni
Francesco Tritto, Agostino Bonserio: trombone
Nunzio Laviero: contrabbasso
Pasquale Parente: batteria
Francesco Lamanna, Gloria Conte, Serena Laiola: violini
Paolo Messa, Felice Modugno: viole
Anita Roshi, Donatello Notarnicola: violoncelli
Maurizio Lampugnani, Gabriel Prado: percussioni
Giovanni Nicosia: tromba
Matteo Ruggiero: chitarra, basso elettrico
Pasquale Gravena, Diosvany Hernandez Marino, Donny Balice: trombe
Burcu Karadag: flauto
Ospiti:
Fabrizio Bosso in Love collision: tromba
Simona Bencini in Love collision: voce
Mario Rosini è un cantante pugliese che ha goduto di una certa notorietà all’inizio degli anni duemila, in particolare quando ha ottenuto un ottimo piazzamento (secondo posto) al festival di Sanremo del 2004. Il compositore di Gioia del Colle, però, non è un semplice interprete di musica leggera italiana, anzi questo inquadramento, sic et simpliciter, gli sta piuttosto stretto. Nella sua carriera artistica, Rosini, ha dedicato tempo ed energie, infatti, alla didattica, con una attività continuativa nei conservatori, in specie a Matera. Da questa esperienza di insegnamento è nato il “Duni Jazz Choir”, un coro formato da otto cantanti, tre soprani, tre contralti e due tenori, protagonisti in questo album, accanto al leader, a voce, pianoforte e arrangiamenti. Nel disco, poi, compaiono altri strumenti e voci, a seconda delle esigenze compositive, fino a formare un ensemble estendibile dalle dieci alle diciannove unità. Del cd colpiscono, innanzitutto, la purezza e l’equilibrio del suono, frutto di una registrazione estremamente accurata delle undici tracce. Il repertorio scelto, inoltre, è estremamente diversificato.
Gli autori italiani sono rappresentati da Bruno Martino, di cui viene riletta in una versione morbidamente slow, l’evergreen E la chiamano estate e da Tony Renis, attraverso la reinterpretazione di una Quando quando quando sparata a ritmo decisamente accelerato, con Rosini che, in corso d’opera, dispensa un bel solo di pianoforte, jazzy al 100%.
Curiosamente vengono miscelate Il cielo in una stanza di Gino Paoli e la colonna sonora di Metti una sera a cena di Ennio Morricone. Il risultato è stuzzicante, giocato su uno scat “à la Swingle singers” da parte del “Duni Jazz Choir”, su un tempo piuttosto sostenuto e su sgargianti colori latini.
Il jazz della moderna tradizione è omaggiato con una Giant steps straripante bop, con il coro che procede a mille all’ora, prima di lasciare la scena al sassofono di Gianfranco Menzella, filologicamente coltraniano. Ça va sans dire… Segue, successivamente, Four Brothers, di Jimmy Giuffre, swingante fino al midollo, dove i cantanti fanno il bello ed il cattivo tempo, ribadendo un’intesa saldissima, frutto di una applicazione metodica e continuativa.
Rosini si riserva tre pezzi di sua composizione. Si comincia con A new sunrise, dall’aria fusion, con un rimando al tipo di scrittura di Joe Zawinul, solida e sfuggente. Si prosegue con la “sanremese” (come inclinazione) Ti sento così (per Sofia), basata su una bella melodia, eseguita con convinta partecipazione emotiva dall’autore. Si chiude con il brano eponimo, in cui il coro segue un percorso dinamico ad ellisse, segnato da un accompagnamento di percussioni mobile e incalzante.
I fuochi d’artificio, però, si materializzano con una versione debordante vigore e impeto di Black or white di Michael Jackson, trasportata nel clima torrido di un Brasile convertito alla disco music… Non è da meno Love collision di Stevie Wonder, che prende fuoco gradatamente, scandita dal rap di Tom Ozzy e dal contributo di altri vocalist ospiti e fatta deflagrare sul finale dalla tromba di Fabrizio Bosso, a concludere la curva ascensionale della tensione provocata dai coristi, alla fine (volutamente) tutti fuori controllo. Di Wonder viene ripresa pure la hit Don’t you worry ‘bout a thing, con il piglio sfrontato di una big band caraibica, dedita alla salsa e ad altre danze centramericane.
“Wavin’ time”, in conclusione, è un album inciso con tanta passione e impegno da parte di un gruppo che ha lavorato sodo per confezionare a puntino pezzi di stampo dissimile. La resa finale è all’altezza dello sforzo produttivo profuso. Non ci sono dubbi in proposito…
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