Foto: Jimmy Katz
Pat Metheny Orchestrion Tour @ Bari.
Bari, Teatro Team – 19.3.2010
Pat Metheny: chitarra, orchestrion
Questo nuovo progetto musicale di Pat Metheny aveva fatto parlare di sé già prima del suo esordio discografico e tutti aspettavano la prova del nove dell’esibizione live. Ma andiamo per ordine: l’idea generale di questa nuova avventura musicale del chitarrista americano prende il via da un’incontro avvenuto, quando il musicista era ancora un ragazzino, tra Metheny ed un pianoforte custodito gelosamente dal nonno materno, anch’esso musicista, nella soffitta della sua casa nel Wisconsin. Nel corso delle periodiche visite, il giovane Metheny prese confidenza con il curioso meccanismo di cui quel pianoforte era munito. Un dispositivo meccanico azionato da rulli di carta provvisti di appositi fori che azionando i martelletti dello stesso, permettevano allo strumento di suonare praticamente da solo. Quello che il futuro musicista aveva davanti era uno dei tanti Player Piano risalenti all’inizio del secolo scorso, più tardi evolutisi in apparecchi dal meccanismo ancora più complesso e che, basati sullo stesso principio di riproduzione musicale, riuscivano a ricreare il suono di un’ organico più esteso. Questi ingombranti armadi musicali furono chiamati “orchestrion”, nome che verrà poi utilizzato per il progetto in questione.
Quello strano strumento colpì l’immaginazione del futuro musicista fornendogli una visione del futuro. Quella stessa visione che non lo ha mai abbandonato durante i prolifici anni della sua produzione musicale portandolo a confrontarsi con tutta una serie di apparecchiature e tecnologie applicate al suono della sua chitarra, che poteva di volta in volta avere il suono di un’altro strumento, sdoppiarsi o raggiungere l’impatto sonoro di un’intera orchestra.
Dopo un lungo e faticoso lavoro durato quattro anni e coadiuvato da alcuni dei migliori inventori e tecnici americani, a cui lo stesso musicista aveva commissionato la realizzazione dei numerosi congegni, Metheny è riuscito a mettere in piedi un’ambiziosa giostra musicale composta da vibrafoni, marimbe, pianoforti, bottiglie soffiate ed altri strumenti percussivi di varia estrazione; il tutto azionato da solenoidi, dispositivi pneumatici e magnetici che fanno suonare tutti gli strumenti, per cui il musicista ha scritto e organizzato tutte le parti, in estese composizioni portando alle estreme conseguenze il frutto di quel seme gettato tanti anni fa nel fertile terreno della sua immaginazione.
La musica che ne viene fuori è in puro stile Pat Metheny Group, fatta di complesse figurazioni ritmico-melodiche, spostamenti armonici, nonché ariose aperture verso i tanto cari paesaggi del mid-west americano, che si palesa attraverso la forma della suite, cinque per l’esattezza e tutte eseguite dal vivo esattamente come ascoltate su disco. E diversamente non poteva essere vista la natura dell’organizzazione musicale posta in gioco che richiede un complesso lavoro di settaggio e programmazione degli strumenti e abbassa praticamente a zero la possibilità di qualsiasi variazione estemporanea, salvo gli interventi alla chitarra di Metheny, a cui un’abituale frequentatore di concerti jazz è abituato. Fattore questo, inoltre, che determina un’insolito nervosismo da palco da parte dello stesso musicista, che troppo spesso sembra preoccupato che tutto possa funzionare alla perfezione. Qualche problema infatti non è mancato sotto forma di un fastidioso ronzio che ha accompagnato per un’intero brano l’esecuzione del chitarrista. Perso nell’ingombrante presenza del suo “Orchestrion” il chitarrista appare come un bambino che si trastulla nel ludico piacere, troppo personale, dei balocchi da lui stesso creati, che rischiano però di sopraffarlo e ingabbiarlo in strutture troppo predefinite. Nemmeno le versioni di brani dal suo repertorio classico come Antonia, Offramp, o Episode D’Azur riescono a dissolvere quello straniante senso di inadeguatezza che questo tipo di musica riesce a trasmettere. Il concerto visto, somigliante più ad una fiera della tecnologia applicata alla musica, manderebbe più verosimilmente in estasi una spedizione di ingegneri in visita che gli amanti di una musica che li ha abituati a godere del tocco viscerale ed umano di un vero musicista. Metheny ci mostra una possibilità: quella di un futuro musicale che ci auguriamo però non persegua, affinché torni al più presto a circondarsi di veri musicisti dal tocco meno “meccanico”.