Bari, Teatro Forma – 20/23.4.2023
Foto: Vincenzo Fugaldi
La seconda edizione del festival organizzato dall’associazione pugliese “Nel Gioco del Jazz”, presieduta da Donato Romito, che organizza da anni anche rassegne in città, è partita con l’annuncio delle future dimissioni da direttore artistico da parte di Roberto Ottaviano, notizia dallo stesso poi confermata sui social media. La scelta di Ottaviano, da decenni uno dei più importanti jazzisti europei, di passare il testimone alle giovani generazioni, segue il defilarsi, in seguito a una faccenda completamente diversa, di Pino Minafra dal Talos festival della vicina Ruvo di Puglia. Di tutto ciò ha scritto il giornalista pugliese Ugo Sbisà sulle colonne della Gazzetta del Mezzogiorno, in ultimo il 25 aprile. Se da un lato risulta totalmente comprensibile la scelta di lasciare da parte di Ottaviano (ma lasciare le direzioni artistiche solo per dedicarsi totalmente alla sua attività di musicista, altrimenti non lo perdoneremmo mai!), rimane l’incognita sul futuro delle rassegne e del festival barese.
Festival che, pur essendo solo alla seconda edizione, ha presentato un programma di altissima qualità, libero da pressioni e circuiti commerciali, coraggiosissimo, in un panorama, quello del meridione d’Italia, non sempre avvezzo a scelte artistiche di questo livello, teso a rappresentare la musica di qualità, ovviamente in base alle risorse economiche disponibili. Ha esordito – in casa – il quintetto del batterista Fabio Accardi, che ha presentato il suo lavoro intitolato “Feel of drummatiko”, con Francesco Lomangino (soprano, tenore e flauto), Fabrizio Savino (chitarra elettrica), Bruno Montrone (pianoforte), Gianluca Aceto (basso elettrico) e Walter Celi (voce, percussioni e tastiera). Un proposito interessante, sostanzialmente un omaggio ad alcuni batteristi-compositori della storia del jazz – DeJohnette, Erskine, Williams, Cobham -, con arrangiamenti puntuali e delicati, buone prestazioni di Lomangino, Savino e Montrone, il drumming mutevole e colorato del leader, atmosfere gradevoli spesso tendenti a una fusion di qualità con un gusto per la confezione sicuramente gradevole, ma che avrebbe tuttavia giovato di un pizzico di senso del rischio in più.
Senso del rischio che non è certo mancato al quartetto – nomen omen – “Disorder at the border”. Quattro musicisti che vivono da sempre sui confini (territoriali, ma anche musicali): Tobias Delius, storico componente dell’ICP, i friulani Daniele D’Agaro e Giovanni Maier e lo sloveno Zlatko Kaucic. Alfieri dell’improvvisazione più spericolata, ma con i piedi ben piantati nella tradizione, i quattro hanno offerto un set totalmente aleatorio, che tuttavia, grazie al decennale affiatamento, alla consolidata pratica improvvisativa e alla perizia fuori dal comune, non ha mancato di centrare il colpo, in un concerto fresco e comunicativo, caratterizzato da una ritmica articolata e duttile e dall’incrociarsi dalle differenti dinamiche dei tenori e dei clarinetti, che passavano da momenti infuocati ad atmosfere meditative, dove spesso il contrabbasso conduceva il gioco, con il supporto fondamentale della fantasia percussiva di Kaucic.
Tutt’altre atmosfere dal secondo concerto in Italia, dopo quello ferrarese, della versione italiana del quartetto “Sweeter than the day” del celeberrimo pianista e compositore statunitense Wayne Horvitz, con Francesco Bigoni al tenore e clarinetto, Danilo Gallo al contrabbasso e Zeno De Rossi alla batteria. Un concerto dai tratti cameristici – Horvitz ha chiesto di mantenere il volume dell’amplificazione il più basso possibile – che ha valorizzato al meglio la bellezza delle sue composizioni, spesso suggestivamente evocative di immagini cinematografiche, che non si può fare a meno di citare: Ben’s Music, Love, Love, Love, American Bandstand, Capricious Midnight (su “American Bandstand»); Ironbound, Waltz From The Oven (su “Sweeter Than The Day»), A Walk In The Rain (su “The Royal Room Collective Music Ensemble»), No Blood Relations (su “The Snowghost Sessions»), Cell Walk, SSWH #3 (su “Cell Walk»), Inference (su “Live At The Royal Room»), Electrical Storm (su “The Point Of It All»). Atmosfere quasi alla Modern Jazz Quartet, per volume, garbo e delicatezza, Bigoni incisivo sia al tenore sia al clarinetto, Gallo e De Rossi precisi e pulitissimi nel loro ruolo ritmico-armonico, tutti apollinei nelle ballad e opportunamente swinganti nei brani mossi. Il quartetto ha anche ospitato in un brano la nota voce della consorte del leader, Robin Holcomb, nel citato Electrical Storm. Non resta che augurarci di ascoltare presto una registrazione del quartetto.
Collocazione mattutina per il MAT Trio di Marcello Allulli (tenore), Francesco Diodati (chitarra) e Ermanno Baron (batteria). I tre agiscono in una sorta di dimensione improvvisativa quasi telepatica, creando flussi sonori di altissima qualità, con composizioni di coinvolgente atmosfera. Il robusto, flessibile e dinamico suono del sassofono si stagliava con sicurezza sul creativo tappeto ritmico-armonico della chitarra e sull’ottimo lavoro percussivo, a tratti delicato e a tratti poderoso. Fra arpeggi suadenti, crescendo poderosi e volate solistiche, il set, denso e concentrato, ha pienamente centrato l’obiettivo, confermando il valore della compagine, costituita da tre fra i migliori musicisti della scena italiana.
Il gruppo “Dark Dry Tears” di Danilo Gallo, qui al basso elettrico (il suo storico Vox, strumento del 1970), con Francesco Bigoni e Francesco Bearzatti ai tenori e clarinetti e lo statunitense Jim Black alla batteria, è una delle più riuscite testimonianze del superamento dei generi, una realtà musicale non più definibile come jazz o rock, ma come una sorta di superamento di entrambi in una nuova sintesi, nella quale la potenza ma anche la finezza dello stile di Black, il suono scuro e solido di Gallo fanno volare come non mai i fiati, su composizioni, stimolanti per la creatività dei solisti e per l’equilibrio del gruppo, tratte dai loro due dischi (“Thinking Beats Where Mind Dies”, “A View Through A Slot”). Un concerto di grande impatto che mirava all’essenzialità della musica, priva di orpelli, diretta e comunicativa.
Anni addietro spesso presente sui palcoscenici del miglior jazz in Italia, il chitarrista Marc Ducret, che rimane a giudizio dello scrivente il più interessante chitarrista elettrico europeo, è arrivato a Bari con l’ottimo trombonista svizzero Samuel Blaser. Due generazioni a confronto per una celebrazione dell’interplay, con un finissimo lavoro di equilibrio fra scrittura e improvvisazione, tra la sonorità pulitissima e virtuosa del trombone e lo stile modernissimo del chitarrista, una sorta di chitarra-orchestra, cangiante, mutevole, sempre imprevedibile, anche nelle sonorità. Come nel passato, Ducret in assolo muove il corpo quasi a passo di danza, come seguendo un suo particolarissimo swing interiore. Il suo approccio alla chitarra, a parere di chi scrive, è in qualche modo assimilabile a quello di Bill Frisell, fatte ovviamente le debite differenze fra i due. Con lo statunitense condivide un modo di girare attorno alle note, di utilizzare il pedale del volume, un lavoro armonico coltissimo e mai scontato. Bis sulle note di un blues classico di Blind Willie Johnson.
L’ultima giornata del festival si è avviata con la matinée del vocalist Boris Savoldelli, una vera voce orchestra, funambolica anche grazie alla dimestichezza totale con la sua loop station ma anche a un’esperienza e competenza ampia, che va da momenti da crooner a cappella sino a effetti elettronici su brani pop e rock. I suoi concerti in solo, che effettua in giro per il mondo, e che sono solo una delle sue diverse realtà musicali, pongono l’accento sul farsi della musica, come quando esemplifica in un brano monkiano la costruzione di un voicing. Inoltre Savoldelli vanta un buon senso dello swing, ottima intonazione, buona concezione del ritmo, e data la varietà del repertorio (da Lullaby of Birdland a All Blues, passando per Beatles, Hendrix, ecc.) ha offerto uno spettacolo davvero gradevole.
Protagonista della storia del jazz più creativo (basti ricordare le sue collaborazioni, in particolare quella con Archie Shepp risalente agli anni ’60 e ’70 dello scorso secolo), il pianista Dave Burrell, oggi ottantaduenne, ha mostrato a Bari una vena artistica immutata, grazia anche alla presenza al suo fianco della sua compagna e musa ispiratrice Monika Larsson, della quale ha eseguito alcune composizioni. Un mondo poetico, il suo, che abbraccia caratteristiche melodiche di taglio romantico, insieme a un senso drammatico, tra melodie calde e coinvolgenti, impreziosite da ripetizioni e momenti free che lo ricollegano ai suoi trascorsi. Ballads di grande qualità come una versione It’s Wonderful eseguita con padronanza assoluta, così come una deliziosa medley tra Lush Life, My Funny Valentine e Come Rain or Come Shine.
Il gruppo “Eternal Love” di Roberto Ottaviano è un quintetto che sta da tempo riscuotendo un grande successo a livello europeo, ed è costituito oltre che dal leader al soprano, da Marco Colonna al clarinetto basso, Giovanni Maier al contrabbasso, Zeno De Rossi alla batteria e Alexander Hawkins al pianoforte. Ma la tendenza è quella di estendere il gruppo, che è diventato infatti ottetto con la denominazione di “Extended Love”, con due contrabbassi, due batterie e due pianoforti. E finalmente, al concerto barese, un ensemble di undici elementi, denominato “What Love?”, che oltre al quintetto menzionato, schierava Gaetano Partipilo all’alto, Francesco Berzatti al tenore e clarinetto, Ralph Alessi alla tromba, Samuel Blaser al trombone, Danilo Gallo al contrabbasso e il giovane Michele Sannelli al vibrafono. E proprio per questi fantastici musicisti Ottaviano per alcuni mesi ha composto e arrangiato nove brani caratterizzati da una scrittura densa e variegata, che lasciava ampio margine agli splendidi assolo del leader e degli altri fiati, e a un duo di contrabbassi da antologia. Un jazz contemporaneo che non si allontana dalla via maestra, garantito da una duttilità ritmica di grande livello (ben si coniugavano le sonorità del pianoforte e del vibrafono) che sosteneva al meglio il lavoro dei fiati. Da citare l’apporto di Hawkins, che con Ottaviano condivide anni di collaborazioni che hanno dato ottimi frutti, confluite anche in uno splendido disco in duo dedicato a Mingus (“Charlie’s blue skylight», Dodicilune) Ottaviano, anche grazie a due intense giornate di prove, ha diretto l’ensemble con precisione e sicurezza, guidando i musicisti nell’esecuzione delle sue composizioni metricamente ardite, coltissime, a tratti lente e dolenti, sempre vitali e coinvolgenti, che marcano un nuovo traguardo nella storia artistica del musicista, particolarmente ispirato. La registrazione del concerto sarà fortunatamente pubblicata, anche se non si sa ancora con precisione quando.
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