Amburgo – 9/10.6.2023
Foto: Claudia Höhne
Il festival che da anni si tiene nella vivace e dinamica Hamburg, era concentrato in due densissime giornate, e dislocato su più palchi, alcuni abbastanza distanti l’uno dall’altro. Dunque nonostante l’inappuntabile servizio di trasporto gratuito garantito da imbarcazioni e bus navetta gratuiti e frequenti, la concomitanza di eventi rende possibile seguirne solo alcuni. Chi scrive ne ha infatti ascoltati tre, tutti nell’incomparabile cornice della Grosser Saal dell’Elbphilharmonie, capolavoro architettonico aperto nel 2017.
La pianista, vocalist e tastierista polacca Hania Rani, attorniata da un set che comprendeva un pianoforte a coda, un verticale, un pianoforte elettrico e un synth, in una Grosser Saal gremita, ha declinato la sua poetica, tipica di una tendenza della scena europea (mi viene in mente, ad esempio, Kid Be Kid) verso una ritualità musicale solitaria. Rani accosta suoni acustici ed elettronici, fa uso della voce, della loop station, genera atmosfere statiche e vamp ritmico armonici, e su questi costruisce strutture di taglio minimalista, di un minimalismo delicato e romantico, abbastanza personale, sognante e idilliaco, più vicino all’ambient. Il canto filtrato da effetti, la sintesi tra melodicità, ritmo, elettronica, suoni acustici comunque filtrati da echi, generano una sorta di esaltazione della performance solitaria, forse frutto dell’era della pandemia. Le composizioni, di ampio respiro, si muovevano secondo linee che avanzavano con naturalezza, con progressioni delicate.
Ben altra musica dal quartetto della violoncellista statunitense Tomeka Reid: attiva sulla scena più creativa di Chicago, nell’AACM. Dotata di innumerevoli titoli accademici, ricca di tante collaborazioni illustri (tra le quali Roscoe e Nicole Mitchell, Braxton), protagonista di numerose formazioni, ha costituito il suo quartetto nel 2015, registrando due dischi («Tomeka Reid Quartet», Thirsty Ear, 2015 e «Old New», Cuneiform, 2019). Gli altri componenti del gruppo sono prestigiosi: la chitarrista Mary Halvorson, il contrabbassista Jason Roebke e il batterista Tomas Fujiwara. Nel quartetto Reid si rivela anche eccelsa compositrice, mostrando la sua formazione classica. Un gruppo dagli equilibri maestosi, fra il suono bruno e pulito del violoncello (nero!) della leader e la sempre più necessaria chitarra di Halvorson, che poggiano su una ritmica calibrata, con Roebke dalle sonorità cupe e potenti in ottima sintonia con la leggerezza di tocco e la musicalità di Fujiwara, batterista che dispensa colori e dinamiche, fine cesellatore ritmico, che fa un uso misuratissimo del suo essenziale drum set. Le composizioni erano introdotte da momenti di improvvisazione radicale, pratica nella quale i quattro sono maestri indiscussi, condotti su toni delicati, che sfociavano nelle splendide melodie dei temi composti da Reid. Una concezione musicale elevata fa di questo quartetto uno dei più interessanti e validi sulla odierna scena internazionale.
Steve Turre, in quartetto anziché nel previsto sestetto, era accompagnato dal figlio Orion alla batteria, da Dishan Harper al contrabbasso e Rick Germanson al pianoforte. Un concerto di “straight ahead jazz”, in buona parte un hardbop classico, tra blues e omaggi a Ellington. Se il pianista non è apparso ben integrato nel combo, al punto da venire spesso sollecitato dal leader, ben si integravano il giovanissimo contrabbassista e il batterista. Molto delicati nelle ballad, nelle quali la ritmica si calibrava adeguatamente, e swinganti nei brani veloci. La tecnica di Turre è sempre sfavillante, sia con sia senza le sordine. Il concerto ha preso una piega più moderna con Flower Power, un omaggio alla cultura hippy della Bay Area, su un vamp del contrabbasso e un ritmo elastico della batteria, evocando atmosfere alla Charles Lloyd. Poi Turre ha usato anche le maracas, e le sue amate conchiglie, nell’uso delle quali è un maestro indiscusso. Ha anche eseguito un brano a tempo veloce basato sulle armonie di Cherokee, intitolato Black Foot, con la batteria del figlio Orion in buona evidenza, swingando da par suo. Finale tutto per la sua nota versione per conchiglie della davisiana All Blues. Richiamati per un bis, i quattro hanno eseguito un noto classico del jazz, Smoke Gets in Your Eyes.
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