Ljubljana – 5/8.7.2023
Foto: Vincenzo Fugaldi
Sessantaquattresima edizione dello storico festival sloveno, per la direzione artistica di Bogdan Benigar e Borja Mocnik. Un programma ampio e diversificato, che si è avvalso degli spazi prestigiosi interni ed esterni della Cankarjev Dom. Chi scrive ha seguito alcuni dei concerti del festival a partire dal 6 luglio.
Giocava in casa il batterista e percussionista sloveno Zlatko Kaucic, in trio con il contrabbassista inglese Barry Guy e il pianista catalano Augustí Fernández, nel caldo e raccolto spazio circolare della Štih Hall. Insieme hanno impartito una vera lectio magistralis sull’improvvisazione radicale, condotta da tre maestri assoluti della disciplina, che valorizzanno al massimo il suono dei rispettivi strumenti. Un set da antologia, nel quale ha spiccato particolarmente la felice vena melodica del pianista.
Nella medesima serata, nell’ampia Gallus Hall, due concerti consecutivi: Lakecia Benjamin e la Gard Nilssen’s Supersonic Orchestra. La sassofonista newyorchese, insieme al pianista Zaccal Curtis, al contrabbassista Ivan Taylor e al batterista E.J. Strickland, ha presentato i brani del suo ultimo lavoro, “Phoenix”. Tuta dorata, sicura sul palco, orgogliosamente africano-americana, Lakecia gode oggi di una compiuta maturità artistica e ha reso omaggio ad Angela Davis, tra l’altro presente sul disco in due brani come voce recitante. Trio di buon impatto, e leader impegnata anche nell’uso della voce (spoken word), che volava alto col suo sax, mostrando un buon livello di comunicatività col pubblico, ed eseguendo, tra l’altro, una versione di Amazing Grace ricca di spiritualità, e una veloce e intensa interpretazione di My favorite things, per una matrice coltraniana presente per una buona parte del concerto.
La grande formazione del batterista norvegese Gard Nilssen, che dei ben diciassette elementi di cui è composta ne schierava sedici, è una delle ampie formazioni europee più interessanti, forse la più interessante, ma non esiterei a dire anche al mondo, come ha affermato Benigar nel presentarli. Tre batterie, tre contrabbassi, e dietro schierati sassofoni e ottoni. “Un sogno diventato realtà”, la definisce il leader, che vi ha messo dentro le sue passioni, tra le quali senz’altro i Brotherhood of Breath di Chris McGregor. Un jazz che coniuga magistralmente individualità (schiera solisti di altissimo livello, fra i migliori che la scena europea possa offrire) e collettivo, con un organico dall’impatto travolgente, composizioni di grande qualità e arrangiamenti preziosi e curatissimi. Da citare un formidabile assolo di Petter Eldh, fedele partner di Nilssen, contrabbassista dallo stile personalissimo.
La serata del 7 luglio si è aperta con il quartetto della violista e cantante serba Jelena Popržan, attiva a Vienna, con Christoph Pepe Auer, alto e clarinetto, Clemens Sainitzer, violoncello, e Lina Neuner, contrabbasso. Un ensemble di taglio cameristico, per un set molto gradevole, che a tratti ricordava la dolce e indimenticabile follia della Penguin Cafe Orchestra, ma con l’impronta delle notevoli doti vocali della leader, che ha anche omaggiato, declamandone alcuni versi, la poetessa ebrea polacca Tamar Radzyner.
Sul palco principale, dalla Francia, il quintetto della contrabbassista e cantante Sélene Saint-Aimé, con Hermon Mehari alla tromba, Rafael Aguila Arteaga al tenore, Sonny Troupé al ka e Arnaud Dolmen alla batteria. Di origini caraibiche e africano occidentali, Sélene, allieva di Ron Carter, Lonnie Plaxico e Steve Coleman, ha proposto un set limpido e ricco di poliritmi, di canto africano, esibendo una splendida voce, con un ottimo lavoro sinergico dei fiati, misurati e calibrati negli assolo, con brani tratti dai suoi due dischi “Mare Undarum” e “Potomitan”. Saint-Aimé, che ha eseguito anche Moves di Doug Hammond, dà molta importanza ai testi, e ha infatti letto un testo poetico in inglese della scrittrice Suzanne Cesaire, “The Great Camouflage: Writings of Dissent”, sugli anni della repressione effettuata dal governo di Vichy in Martinica.
Immanuel Wilkins ha portato a Lubiana il suo quartetto con Micah Thomas al pianoforte, Matt Brewer al contrabbasso e Kweku Sumbry alla batteria. Al secondo album per Blue Note, il giovane sax alto, con il suo rodatissimo quartetto (tranne per i contrabbassisti, che spesso cambiano) ha suonato un set incisivo, fresco e dinamico. Thomas in grande evidenza, Sumbry rapidissimo e irruento con la sua concezione percussiva avanzata e pronto a cogliere e sottolineare ogni sfumatura delle composizioni, Brewer metronomico, un combo perfetto per sostenere il sassofonista nelle sue splendide volate solistiche, fascinose, rapide come il pensiero. Un concerto che ha lasciato il segno.
L’ultima serata del festival ha schierato sul palco “Eternal Love”, il quintetto di Roberto Ottaviano con Alexander Hawkins al pianoforte, Marco Colonna al clarinetto basso, Giovanni Maier al contrabbasso e Zeno De Rossi alla batteria. Gruppo attivo da almeno un quinquennio, è una delle migliori espressioni del jazz italiano dei tempi recenti, ideata da un musicista che da decenni è protagonista di primo piano della scena, sempre con idee e progetti incisivi e di rilievo. “Eternal Love” si può ascoltare sull’omonimo Dodicilune del 2018 e su “Extended Love & Eternal Love: Resonance & Rapsodies” del 2020. Questo gruppo raccoglie, tra l’altro, il messaggio d’amore lasciatoci da Don Cherry, lo perpetua e lo attualizza con una resa intensa, appassionata, magistralmente interpretata. L’intreccio tra i fiati, soprano e clarinetto basso, si fa poesia, coniugandosi con il colto pianismo di Hawkins, il canto delle corde di Maier e i tamburi danzanti di De Rossi. Un salvifico omaggio alla creatività e alla tradizione di un jazz che si mostra più che mai vitale, tra il tradizionale africano Uhuru, Mopti di Cherry, e composizioni originali che si muovono lungo le medesime linee.
Il quartetto di Theon Cross (nella foto), noto basso tuba dei Sons of Kemet, con la sassofonista tenore Chelsea Carmichael, il chitarrista Nikolas Ziakras e il batterista Patrick Boyle ruota intorno ai vamp del leader, che definisce le strutture dei brani, dando spazio al fraseggio limpido e definito del sax, al suono “nordico” filtrato e acido del chitarrista, al batterista rapido e scattante, che ha lavorato egregiamente sui differenti ritmi. Groove irresistibile, assertivo e convincente, con spazio anche per momenti in solo per il chitarrista e per il leader, uno dei maggiori specialisti al mondo dell’ingombrante strumento.
A concludere l’ottima serata, nello spazio del Klub CD, il Domen Cizej Percussion Ensemble. Il leader, sloveno di base ad Amsterdam, ha costituito un gruppo di sette percussionisti che suonano un numero impressionante di strumenti diversigiocando con estrema finezza sulle sottigliezze timbriche, costruendo poliritmie di rara qualità.
Splendido finale per lo storico festival, che si conferma fra i migliori del panorama europeo odierno.
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