Skopje – 19/22.10.2023
Foto: Vincenzo Fugaldi
Membro dell’Europe Jazz Network, il festival della capitale della Macedonia del Nord, avviato nel lontano 1982, è uno dei principali festival europei, con la sua caratteristica apertura stilistica e geografica. Diretto dal 1996 da Oliver Belopeta, lo Skopje Jazz Festival organizza anche da oltre un ventennio, in primavera, l’OFF Fest, evento legato alla world music e gestisce anche la SJF Records, etichetta che ha già pubblicato una cinquantina di registrazioni, dando visibilità agli artisti del territorio.
Chi conosce la città ricorderà certamente i contrasti affascinanti fra la parte monumentale e il vecchio bazar, con i suoi mercatini e i caffè turchi. Proprio nella parte monumentale, in due spazi molto differenti, insistono l’ampio auditorium del National Opera and Ballet, e il club MKC, che ospitava i concerti notturni.
L’apertura del festival è stata affidata alla prima esecuzione di un’opera ambiziosa: la Fame’s Institute Orchestra, uno dei progetti più interessanti nel settore musicale finanziati dall’Unione Europeain Macedonia del Nord, ha eseguito After the Wildfire, una composizione dei norvegesi Jan Bang e Arve Henriksen, arrangiata per orchestra da Dzijan Emin, che nell’occasione l’ha anche diretta, con la presenza del percussionista norvegese Ingar Zach. La composizione si articolava in otto movimenti scritti per tromba, campionatore, percussioni, kaval (piccolo flauto in legno della tradizione balcanica), zurna (antenato medio orientale dell’oboe) e voci. Una sorta di viaggio nel territorio della third stream, in buona sostanza un concerto per tromba e orchestra, con le parti solistiche che gravavano sostanzialmente sulla tromba e sul trombino di Henriksen, con il suo caratteristico timbro flautato, finissimo e delicato, che poggiava magnificamente sulla ampia sezione degli archi. Opera ambiziosa e coinvolgente, suggestiva e austera, impreziosita da tre voci femminili e da quella dello stesso trombettista. Un bell’inserto di matrice folclorica selvaggio e liberatorio con i suoni caratteristici di kaval e zurna, e il prezioso lavoro di Bang all’elettronica, insieme alla grande competenza percussionistica di Zach, hanno contribuito alla riuscita della produzione originale del festival.
Altro concerto atteso era quello del quartetto del chicagoano Ben Lamar Gay. Oltre al leader alla voce, cornetta e synth, Will Faber alla chitarra, Mattew Davis alla tuba e Tommaso Moretti alla batteria. L’ensemble ha proposto una mirabile sintesi che puntava al superamento dei generi, inglobando vocalità africano-americane, jazz contemporaneo, ritmi complessi e coinvolgenti. Alla tromba il leader pare evocare a tratti Don Cherry, e la musica gioca intorno a una festosità di fondo, cui contribuisce fortemente la notevole carica ritmica impressa dal fenomenale batterista, un italiano formatosi nell’ambiente romano più avanzato e da un decennio stabilitosi nella Windy City. Tra i momenti da ricordare, uno splendido brano in cui tutti – tranne il batterista, che sosteneva il ritmo – suonavano delle particolari campane, e un altro dove suonavano dei differenti flauti in legno.
“Eternal Love” è il quintetto che Roberto Ottaviano ha costituito alcuni anni fa, e che ha all’attivo due pregevoli testimonianze discografiche su etichetta Dodicilune (“Eternal Love” del 2018, “Extended Love & Eternal Love – Resonance & Rhapsodies” del 2020). Concepito inizialmente come omaggio ad alcune personalità carismatiche della musica che amiamo (Haden, Ibrahim, Redman, Coltrane, Cherry), il gruppo si sta orientando sempre di più verso l’esecuzione di composizioni originali, la maggior parte dovute alla felice vena compositiva del leader. Nella formazione si alternano abitualmente due pianisti, il britannico Alexander Hawkins e l’italiano Giorgio Pacorig, che era presente a Skopje. Accanto a Ottaviano al sax soprano e Pacorig, il clarinetto basso di Marco Colonna, il contrabbasso di Giovanni Maier e la batteria di Zeno De Rossi. La forza del progetto poggia, fra i tanti elementi, sull’intreccio fra le sonorità del soprano e quelle del clarinetto, sulla coesione del gruppo, sulle mirabili volate solistiche dei fiati e sulla duttilità della sezione ritmica, i cui tre componenti trovano ampio spazio per le proprie rilevanti personalità musicali. Commovente, doverosa l’idea di omaggiare l’appena scomparsa Carla Bley con una brevissima esecuzione, in apertura del concerto, della sua celeberrima Ida Lupino. Non sono mancati, nel repertorio eseguito, brani altrui (Elton Dean, Misha Mengelberg, Mal Waldron), ma le composizioni originali erano tutte del leader, e tra queste spiccava un omaggio a Maria Callas.
Il duo Sylvie Courvoisier-Mary Halvorson, pianoforte e chitarra, con due incisioni discografiche, la prima risalente al 2017 (“Crop Circles”), e la seconda al 2021 (“Searching for the Disappeared Hour”), è stato protagonista di un concerto intimo e intenso, nel quale le notevoli capacità compositive e improvvisative di entrambe si coniugavano mirabilmente. Con un repertorio di brani alcuni in prima esecuzione assoluta, l’incanto è stato creato grazie a un convincente interplay, nel quale le finezze melodico-armoniche e il lavoro della pianista direttamente sulle corde dello strumento si incontravano col il suono semiacustico e il rapidissimo fraseggio della chitarra, caratteristico e inconfondibile. In buona sostanza, una magica celebrazione del dialogo in musica, affidata a due tra le più interessanti personalità del jazz contemporaneo, complici e complementari.
Il concerto di Jason Moran (nella foto): classe 1975, attivo sin dagli anni Novanta, con un disco recente dal sapore di capolavoro (“From the Dancehall to the Battlefield”), le sue performance in piano solo sono imperdibili. Oltre a una tecnica sopraffina, a una conoscenza profonda della storia della musica africano-americana, Moran possiede un senso narrativo come pochi, e costruisce i suoi concerti con un senso teatrale non comune. La sua è una teatralità soprattutto interna alla musica, che si sviluppa attraverso magnifiche iterazioni, pregevoli esecuzioni di standard e di composizioni originali, salti temporali fra tradizione e contemporaneo, e che solo di rado ricorre ad artifici scenici, come quando è rimasto al buio completo per alcuni minuti suonando cromaticamente sul registro basso, per poi riaccendere la melodia sul registro medio-alto, al riavviarsi delle luci. Quando ha preso il microfono dopo l’esecuzione di uno splendido blues, al termine di un primo set, ha spiegato con toccanti parole quanto sia difficile per lui suonare il blues, quasi un mettersi innanzi a uno specchio disvelando le proprie emozioni, le lacrime, il sorriso, l’abbraccio, mani che si uniscono…
Il quartetto “Good Vibes” del vibrafonista Joel Ross (Jeremy Corren al pianoforte, Kanoa Mendenhall al contrabbasso e Jeremy Dutton alla batteria), tutto composto da giovani, ha proposto un set interessante ma non memorabile, cui avrebbe sicuramente giovato una minore prolissità. Ross è uno dei migliori giovani vibrafonisti in attività, e il fedele Dutton uno dei più apprezzati giovani protagonisti del drum set. Ben spalleggiati dalla contrabbassista e dal pianista, hanno eseguito le composizioni originali all’insegna di un apprezzabile interplay, con ampio spazio per le bacchette di Ross, non a caso uno dei nomi di spicco della nuova Blue Note.
Un incontro fra Svezia e Sardegna, quello tra il veterano Mats Gustafsson e la clarinettista sarda Zoe Pia, in un set notturno all’insegna della radicalità, dell’elettronica, dell’uso insolito di strumenti a fiato e tradizionali. Collaborazione nata grazie alla Fire! Orchestra e concretizzatasi in questo duo nell’anno corrente, si è rivelato un coinvolgente, acceso, suggestivo e avanguardistico confronto, nel quale il baritono dello svedese, noto per la radicalità con la quale viene utilizzato, veniva alternato a flauti e altri fiati, mentre Zoe Pia -con una gestualità e un look adatti al contesto – faceva un uso decisamente non ortodosso delle launeddas e di una quantità di altri strumenti e di elettronica (in particolare utilizzando un synth analogico gestito da una fonte di luce), oltre al clarinetto dal suono filtrato, mentre la musica trascorreva da momenti di calma bucolica a tratti acidi, aspri, selvaggi.
Il trio composto dal percussionista Zlatko Kaucic, dal contrabbassista Barry Guy e dal pianista Agustí Fernández è una delle più interessanti formazioni europee. I tre (Slovenia, Gran Bretagna e Catalogna) sono maestri indiscussi della pratica improvvisativa, e il loro insieme genera una temperatura emotiva di altissimo livello. La fantasia percussiva di Kaucic, il rigore e l’elevato stile strumentale di Guy si incontrano con la felice vena melodica del catalano, che apre luminose oasi melodiche nel flusso dei suoni, riportando il trio nel territorio della tonalità, con esiti affascinanti.
Lui, il leader Gard Nilssen, la definisce la band dei suoi sogni. Ma la definizione non vale solo per Nilssen, ma per chiunque abbia l’occasione di ascoltare la Supersonic Orchestra, questa potente compagine orchestrale, con il suo “big sound”. Tre batterie, tre contrabbassi e, dietro, tromboni, trombe, sassofoni pronti a celebrare il prezioso rito della musica creativa. Già due dischi all’attivo (“If You Listen Carefully The Music Is Yours”, Odin, 2020 e “Family”, We Jazz, 2023), l’orchestra, normalmente composta da diciassette elementi, a Skopje vedeva l’assenza di uno dei sassofonisti. Con un repertorio basato sul disco recente, l’orchestra ha ancora una volta fornito una prova magistrale, grazie a composizioni efficaci, arrangiamenti che valorizzano al massimo la formazione e memorabili volate solistiche. Ottimo anche il lavoro di coordinamento e d’insieme delle tre batterie, che sono una delle più tipiche caratteristiche della Supersonic. L’acclamato bis, richiesto da un pubblico osannante, era un omaggio a Carla Bley, con una versione di We Shall Overcome da antologia.
Gran finale notturno – e danzante – con il nonetto brasiliano dei Bixiga 70, da San Paolo. Musica esclusivamente strumentale con fiati e ritmi elettrici, all’insegna di un potente e trascinante groove, per concludere l’entusiasmante edizione del festival della capitale macedone, effettuata anche in collaborazione con l’UNHCR, per il progetto “Jazz for Solidarity with Refugees”, contenente un forte e necessario appello per la solidarietà con i rifugiati.
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