Two things of gold è un lavoro in cui Francesca Sortino e Diego Lombardo sintetizzano e fanno convivere molti spunti e riferimenti diversi tra loro. Il lavoro è stato pubblicato lo scorso settembre per A.MA Records. Abbiamo chiesto alla cantante di raccontarci qual è stato il percorso che ha portato alle quattordici tracce che ascoltiamo nel disco.
Jazz Convention: Come avete sviluppato il materiale presente in “Two Things of Gold”? Come avete realizzato di volta in volta le connessioni tra i vari linguaggi musicali?
Francesca Sortino: Lavorare con Diego è un work in progress molto naturale perché lui ha assorbito il jazz da me ed io ho amato l’interezza del suono proveniente dal mondo black, dall’hip hop fino alla trap. La garanzia che il lavoro alla fine ha un suo proprio sound è il risultato di un’unione vincente. Sono la sensibilità, il feeling e l’orecchio a creare l’amalgama. Di solito parto prima io, Diego ha bisogno di sedimentare un’idea melodica appoggiata già su una tessitura che ho creato per lavorare sul beat o sull’inserimento di altri strumenti. Ci cominciamo ad interfacciare sulla stesura e sull’editing. Io sono più rough, lui è più pulito nel creare il beat, ha un grande senso ritmico mentre io credo di essere più a mio agio nel trovare accostamenti inusuali, a volte anche azzardati. In questo disco è massiccio l’uso dei sample che utilizziamo come pennellate di colore su una tela. È la differenza dei nostri caratteri a permettere una certa complementarietà.
JC: Ci sono poi due altri aspetti essenziali nel disco, vale a dire il rapporto tra tradizioni musicali e nuove tendenze e la coesistenza di sonorità acustiche ed elettroniche. Una dialettica, se vogliamo, che rappresenta una traccia che corre per tutto il disco.
FS: “Two Things of Gold” è un doppio album che presenta un dualismo tra sonorità acustiche ed elettroniche dove si può apprezzare un maggiore contributo del beat elettronico. In realtà ci sono sempre fills di batteria acustica mentre dove è predominante la batteria acustica c’è anche il rafforzamento da parte dell’elettronica. I brani possono essere ascoltati in random senza che si perda una coerenza di suono.
JC: Avete coinvolto in “Two Things of Gold” una compagine estremamente eterogenea di ospiti: è stato un punto presente sin dall’inizio del progetto o è una cosa nata via via che venivano concretizzandosi le idee e i materiali per il disco?
FS: Mano mano che i brani prendevano forma e un’idea sonora si concretizzava, la musica semplicemente ci chiedeva uno strumento, un coro, una backing voice, un solo di chitarra e altro ancora. Roberto Rossi, Alessandro Maiorino, Mauro Beggio e Alberto Parmegiani sono presenti in quasi tutte le tracce. E siamo veramente grati a tutti i musicisti che hanno partecipato al disco. Ogni piccolo o grande contributo é stato per noi essenziale.
JC: Nel disco “abitano” tante voci e diverse anime espressive: è un modo anche per far convergere esperienze musicali e curiosità personali e cercare nuove possibilità per interpretare in una maniera diversa il concetto di improvvisazione?
FS: Durante la composizione e l’arrangiamento di un brano, se colloco la coscienza in uno spazio illimitato e ignoto si perdono i confini tra i generi musicali. Ed è in quel caso che mi sento più creativa e intuitiva, quando improvviso. Anche nella composizione sono in cerca dell’imprevisto, della casualità, di quel suono che è fuori luogo solo apparentemente. Nel procedimento compositivo, l’intuito è per me generatore di idee e lo lascio libero di esplorare nel mio archivio mentale, senza condizionamenti e abbandonandomi alla vulnerabilità. È una cessione di potere, dare corpo ai materiali anche molto diversi fra loro, accogliere il dispiegarsi dei paradossi senza cadere in fragili necessità di sintesi.
JC: Di conseguenza, e in maniera speculare, quanto è stata importante la scrittura dei brani e quanto l’avete rispettata nel realizzare il lavoro?
FS: Ogni creazione nasce dal mistero, ma mentre Carla Bley usava carta e matita io parto dalla registrazione sul cellulare di una melodia che arriva all’improvviso, da una sequenza di accordi, da un loop o una poesia. Mi metto al piano e invento un freestyle, canticchio. Diego in questo è anche peggio di me, non scrive nulla.
JC: Il fatto di confrontarsi tra madre e figlio quanto è stato importante? Quanto è stato di aiuto e quanto, invece, un freno?
FS: Sicuramente mio figlio ha dovuto adattarsi di più a me che viceversa. Le sue produzioni sono molto più vicine alla Trap ma musicalmente è sempre stato molto curioso. Sa dare alla musica quello di cui ha bisogno senza crearsi problemi di generi. Certo i suoi gusti alle volte non coincidono perfettamente con i miei ma va bene così…
JC: Per certi aspetti è una condizione che, naturalmente, vi ha messo di fronte a prospettive differenti nel guardare al lavoro che stavate facendo: qual’è stata la vostra sensazione in questo senso?
FS: Diego è molto giovane e ovviamente ha i gusti dei suoi coetanei. Non è molto vintage, la vintage, tra virgolette, sono io: dico “tra virgolette” perché il mio è uno spirito giovane, quasi da bambina.
JC: Da dove nasce, infine, il nome del progetto, “Two Things of Gold”?
FS: Siamo in due. E due sono i dischi racchiusi nel nostro album di debutto. Uno più intimista e l’altro più solare, come i poli opposti Yin e Yang ma dinamicamente legati fra loro in un rapporto di completamento. Ad essere due sono anche gli stati d’animo all’interno dello stesso brano e i versi, che a volte travalicano il senso logico mostrandone il lato spirituale, senza ricorrere a un’analisi intellettuale. E poi c’è anche un brano che è la title track dell’album.
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