Foto: Ferdinando Caretto
Slideshow. Aldo Mella.
Jazz Convention: Aldo, parlaci anzitutto nella tua formazione e dei tuoi esordi.
Aldo Mella: Ho cominciato ad avvicinarmi alla musica in giovane età. A nove anni la chitarra,(strumento con cui tuttora scrivo musica abitualmente)e a dodici il basso elettrico, potremmo dire per esigenze di gruppo: erano gli anni in cui suonare il basso era un po’ come sacrificarsi per la causa. Ovviamente il tutto da vero autodidatta, metodo che mi ha accompagnato sino ad ora. Sono cresciuto un po’ come tutti a Jethro Tull, Santana e Deep Purple, fino a quando all’eta di 17 anni, sono stato folgorato da un disco del quintetto di Max Roach (quello con Clifford Brown e Harold Land). Di conseguenza ho comprato un contrabbasso e mi sono presentato la stessa sera dell’acquisto in un locale di Pinerolo, ai tempi frequentato da musicisti della vecchia guardia torinese, lanciandomi a suonare tutta la sera fino a che i polpastrelli hanno chiesto pietà.
JC: Ma quando per te è avvenuto il passaggio definitivo al jazz?
AM: E’ stato grazie all’incontro con il pianista Gianni Negro, il quale mi introdusse nel mondo del jazz di Torino dove ho forgiato gran parte del mio background musicale. Poi sono arrivati gli altri incontri determinanti per la mia vita musicale. Intanto, nel 1985, quello con Giulio Capiozzo: nacque il progetto Area II e la conseguente uscita discografica (Area II per Gala Records); nel 1997 quello con Franco D’Andrea che considero ad oggi, dopo 13 anni e 8 CD, una delle esperienze più profonde e coinvolgenti della mia vita artistica.
JC: Ovviamente ci sono anche negli anni intermedi che non hai ancora citati…
AM: Lì ho avuto modo di lavorare sia come leader che come session man, vedi il progetto Mella & Allione Quartetto (1992) che si concretizzò in un lavoro discografico (Enklisis, DDD) che ad oggi rimane uno delle mie incisioni preferite. Aggiungerei il lavoro del 1996 con l’Archetiporchestra, nel quale abbandonai lo strumento per dedicarmi a composizione e arrangiamenti. Potrei riassumere queste stagioni musicali citando le numerose e stimolanti collaborazioni con musicisti di fama internazionale…
JC: Riesci a ricordarle tutte?
AM: Ci provo: Robin Keniatta, Lou Blackbourn, Adam Makovitz, Gene Bertoncini, Gary Bartz, Charles Tolliver, Jimmy Owens, Lee Konitz, Martin Dietrich, Ricky Lawson, Bruce Forman, Jack Walrath, Peggy Stern, Manhu Roche, Carl Anderson, David Liebman. Charlie Mariano, Stanley Jordan, Kenwood Dennard, Chico Chagas, Steven Berstein, Eric Legnini, NelsonVeras, George Garzone, Marco Pereira, e tra gli Italiani Franco D’Andrea, Massimo Urbani, Flavio Boltro, Stefano Di Battista, Guido Manusardi, Giulio Capiozzo, Luigi Bonafede, Antonio Faraò, Emanuele Cisi, Antonio Marangolo, Ellade Bandini, Andrea Allione, Giorgio Licalzi, Francesca Oliveri, StefanoCantini, Stefano Bollani, Rudi Migliardi, Rossana Casale.
JC: Sei poi conosciuto per una tua ancor giovane carriera con il tuo progetto Animalunga e in parallelo accanto ai più importanti solisti; puoi dirci anzitutto del tuo lavoro da leader?
AM: Il progetto Animalunga è nato nel 2006 grazie all’incontro con Roberto Bongianino, fisarmonicista che vive in un paese limitrofo a quello dove vivo attualmente. Si tratta dell’unico musicista della zona (essendo io originario di altri luoghi) con cui ho condiviso un’idea musicale. Nello stesso anno ho ritrovato, dopo molto tempo, il pianista Alberto Tafuri, musicista con cui ho suonato molto negli anni ’80 e che si è dedicato nel frattempo al lavoro di arrangiatore nel panorama della canzone pop italiana. Così è nato Animalunga che ha dato vita al CD Il mio posto nel mondo, uscito nel 2007 per la DDE. Attualmente il gruppo ha subito un cambiamento importante dovuto all’uscita dal gruppo di Alberto Tafuri, sostituito da un giovane pianista di Alba, Fabio Giachino, che ritengo musicista di notevole potenzialità creativa. Fra aprile e maggio vorrei registrare il nuovo CD con l’auspicio di farlo uscire entro fine anno.
JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?
AM: Nove anni. Chitarra acustica. Some velvet morning dei Vanilla Fudge… linea di basso imparata ad orecchio e suonata fino allo sfinimento! Penso sia stato questo l’inizio di tutto, a parte il primo strumento che mi fu donato all’età di 7 anni e cioè una piccola fisarmonica con cui strimpellavo Reginella Campagnola!!!
JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?
AM: L’idea di fare il musicista mi ha sempre affascinato sin da piccol. Di innamorarmi della musica jazz e di tutto ciò che ne consegue penso sia stato un insieme di circostanze fortuite. E singolari coincidenze. Quando, nel 1977, mi iscrissi al corso di jazz che il pianista Gianni Negro teneva presso l’istituto musicale Corelli di Pinerolo (mia citta natale) ero forse il meno motivato: partecipavo forse più per curiosità che per reale convinzione. In realtà fui un dei pochi allievi che concluse il corso e questo mi permise di essere proiettato nella realtà del jazz torinese: per me, all’epoca, davvero un grande salto.
JC: E poi?
AM: In seguito, approfondendo il linguaggio improvvisativo, ho cominciato a cogliere profondamente l’aspetto umano e filosofico che si nasconde dietro questo grande genere musicale. Qualità di cui faccio tesoro ancora oggi. Ciò è potuto avvenire soprattutto grazie all’incontro con molti musicisti italiani e stranieri con i quali ho avuto la fortuna di collaborare.
JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?
AM: Il jazz non potrà mai perdere di significato, semplicemente si modifica come tutte le cose che durano nel tempo e che, di conseguenza, si devono adattare ad una diversa interpretazione. Come tutte le forme artistiche contiene all’interno correnti diverse che in qualche modo tenteranno,chi conservandolo,chi allontanandosene, di far vivere questo linguaggio che è, a mio avviso, il diretto collegamento tra mente e cuore. Certamente i personaggi che hanno dato vita ai momenti più creativi di questa musica oramai si contano sulle dita di una mano, ma non per questo tutto ciò che loro hanno creato andrà perso. Nel nostro piccolo e con molta umiltà ognuno di noi conserva dentro di sè un piccolo pezzo di questo bagaglio culturale e, se non siamo degli ipocriti, ci converrà mantenerlo e divulgarlo con tutta la nostra energia. Perché, in fondo, il jazz è anche politica: politica dell’anima e della libertà creativa.
JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?
AM: Ho sempre pensato che la musica sia il valore spirituale della mia vita. Essendo ateo per vocazione, che di certo non significa non avere fede, ma, al contrario, cercarla in altri aspetti che non siano direttamente collegati ad una religione tradizionale, direi che il jazz ha avuto per me un’importanza fondamentale. Mi ha dato un’anima. Senza dubbio aggiungerei il concetto di creatività. Non conosco nessun’altra forma o genere musicale in grado di sviluppare così profondamente questo aspetto artistico, strettamente unito all’estemporeanità. Per finire, vorrei salvare un termine che negli ultimi anni è stato maltrattato o mal interpretato: Libertà. Libertà di esprimersi, di comunicare ma, soprattutto, di vivere e di pensare, possibilmente con la propria testa.
JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?
AM: Il jazz attuale è mutato rispetto a qualche tempo fa. Intanto è cambiato il pubblico del jazz, a mio avviso più numeroso ma meno appassionato, nonostante l’ascolto di molti più generi musicali rispetto al passato. Forse è solo un’impressione, ma mi sembra che spesso ci sia più attenzione verso l’evento, inteso come immagine, piuttosto che verso la sostanza del repertorio proposto. Uno sorta di sindrome televisiva, se mi passate il termine, in cui il presenzialismo gioca la sua parte. Penso, comunque, che il jazz troverà sempre una sua via d’uscita dalle trappole commerciali. Lo ha già fatto in passato, lo sta facendo e continuerà a farlo. Anche se, a mio avviso, la realtà sociale in cui viviamo rende tutto questo sempre più complicato.
JC: Tra i dischi che hai fatto (anche per altri) ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?
AM: Uno dei dischi che riascolto sempre con piacere è Jobim, il primo con il quartetto di Franco D’Andrea. Sono tendenzialmente molto critico nei miei confronti, di conseguenza raramente mi soddisfa ciò che ho suonato. Essendo il quartetto di Franco il gruppo con cui collaboro da più tempo, è sicuramente la situazione musicale dove ho potuto constatare maggiormente la mia evoluzione stilistica.
JC: Qual è stato per te il momento più bello della tua carriera di musicista?
AM: Mi è difficile rispondere a questa domanda,soprattutto dopo quasi 30 anni passati a toccar di corda nelle situazioni più disparate. Sono molti i momenti importanti nella mia vita da musicista e sinceramente non saprei quale di questi mettere al primo posto. Mi limiterei a dire che, tutto sommato, sono stato fortunato: non a tutti nella vita capita di fare la cosa che si ama di più e questo mi sembra già abbastanza.
JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?
AM: Non ho mai lavorato a molti progetti contemporaneamente nella mia vita musicale. Sicuramente sono un po’ pigro ed anche un po’ discontinuo (perdo facilmente l’entusiasmo ) per cui mi ritrovo alla soglia dei miei 51 anni a fare quello che sta provando… a decidere cosa fare da grande! A parte questa digressione “esistenziale”, i due progetti in cantiere sono il nuovo disco in studio con Franco D’Andrea (gli ultimi due erano dal vivo ) e la nuova registrazione di Animalunga con il nuovo pianista.