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Slideshow. Mirco Menna.
Jazz Convention: Iniziamo dal tuo nuovo lavoro discografico?
Mirco Menna: E’ un disco sperimentale senza esserlo per nulla. Un disco suonato da una banda alla maniera delle bande, che è quanto di meno sperimentale possiamo immaginarci. Ma è una banda che suona le canzoni di un cantautore, io. L’impegno è stato quello di fare in modo che non risultasse un’operazione soltanto estetica, di maniera, ma che fosse coerente, che suonasse naturale. A nostro avviso, ce l’abbiamo fatta. Banda di Avola si è dimostrata uno strumento di eccezionale versatilità, e ha giovato alle canzoni.
JC: Ma è possibile definire il tuo lavoro world-music, magari jazz mediterraneo o meridionale? O preferisci la parola folk o altro ancora?
MM: Sì, folk, perché mi piace il volgo e quindi il volgare che esprime… mi viene in mente Ciullo d’Alcamo (uh, non volevo essere presuntuoso).
JC: Nel brano più celebre dell’album c’è un rimando esplicito all’Italia di oggi, o melgio all’Italia che non ci piace: cosa puoi dirci in merito?
MM: Quello che dico nelle note del libretto: l’italiano medio e l’italiano basso, incarnazione reciproca. C’è un verso che si presta a far da chiave di lettura, quello che dice “Evviva Evviva il Capo Minchiuto”. Ecco, si può pensare al Capo puttaniere e alle sue vanterie, o a quell’altro in camicia verde e al suo avercelo duro. Ma certo è anche “il capo minchiuto”, la testa di minchia, diffusa, essenziale per meritarci gente del genere. Dico, è la sindrome d’Alberto Sordi: ci si compiace di assomigliargli.
JC: Pensi che il jazz politico possa tornare ad avere un ruolo di primo piano come accadeva negli anni ’70, magari con un linguaggio sonoro come il tuo?
MM: Negli anni 70 era la politica ad avere nelle coscienze un ruolo notevole, e un certo tipo di canzone ne era naturalmente la testimonianza. A mio parere gli esempi di canzone politica oggi, testimoniano la “nicchia” di interesse nel pubblico, che è poi “la gente”. Ma mi piace pensare che i tempi stiano maturando perché la politica ritorni ad essere centrale, per il riscatto, il recupero delle nostre vite. (Credo comunque che la canzone, come tutte le forme di espressione artistica, sia sempre politica, che lo voglia o no.)
JC: E rispetto al linguaggio?
MM: Beh, i linguaggi mutano, ma ci sono cose che, una volta date, non smetteranno più di esserci: le forbici per esempio, come diceva Luigi Pintor, i lacci delle scarpe, o le bande musicali.
JC: Anche tu, come già faceva Antonio Gramsci ottant’anni fa, poni al centro un problema drammatico: la questione meridionale, per usare una sua espressione. Come la vedi o come la vivi da musicista?
MM: Caspita, questo accostamento mi intimidisce… Credo che la questione meridionale stia compiendo centocinquant’anni, assieme all’Italia. Io sono uno del nord, sono bolognese ma figlio di gente del sud emigrata per lavorare. Il meridione per me è stato quindi un posto dell’anima ma non del corpo, o non del tutto. Lì ho radici emotive, se si può dire. E facendo io un mestiere emotivo, i riferimenti vengono da sé. Certo, al sud mi piace portarci anche il corpo, ogni volta che posso… Ed in realtà, la commistione tra il proletariato del nord e quello del sud (perché questo siamo, Banda di Avola ed io) per un impegno volto al beneficio comune (perché questo abbiamo tentato di fare) è più o meno quello che teorizzava Gramsci, e credo Salvemini ancor prima, a proposito della questione meridionale.
JC: Facendo uno o più passi indietro, mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?
MM: Una pianola in camera da letto dei miei, su cui treenne, secondo me, suonavo. E mio padre che canta L’uomo in frack, con la chitarra.
JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista?
MM: Motivi come dire… naturali, imperativi, obbligatori. E poi certi altri motivi, che a impararli sulla chitarra mi facevano godere.
JC: Ha ancora un significato (o un valore) oggi la parola musica?
MM: Musica, come ci spiega la parola, è l’arte delle Muse ed è immortale. Certo oggi la vediamo svilita per via dell’impossibilità di silenzio che è fondamentale, il silenzio è la tela su cui si dipinge il suono. Troppe volte la musica è maneggiata maldestramente soltanto per annientare il silenzio, come se si patisse una specie di horror vacui a cui si reagisce riempiendo di sottofondi qualunque luogo, ascensori, cessi, sale d’attesa, attese telefoniche. Ma la musica, quella che contiene il silenzio che la precede e che la segue, come dice Baremboim, quell’arte lì è immortale. Per via di chi la fa e di chi la ascolta.
JC: Ma cos’è per te suonare, cantare, fare musica?
MM: Rispondere all’imperativo di cui dicevamo, e condividerlo.
JC: Quali sono stati i tuoi maestri in ambito musicale o culturale in genere?
MM: Gente che ho conosciuto direttamente, in famiglia, nel quartiere, nella musica. Il mio antico amico Paolo Nanni, che firma con me buona parte dei brani, ed era già grande quando io ero piccolo e mi insegnava le cose. E poi, nella vita via via i maestri si avvicendano… in questo momento sul comodino ho un disco di Silvio Rodriguez, un libro di Enzo Mazzi, uno di Saramago. Li tratto da maestri, imparo ed il piacere che mi dà sta lì. Citerò anche Luvi de André, in questo senso, per il talento e per la discrezione.
JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?
MM: Sul palco, suonando, quando tutto va bene. E dopo, a tavola.
JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?
MM: Quelli simpatici e bravi (laddove “bravo” è parola multiforme e mal codificabile).
JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?
MM: Di cantarla e suonarla, nell’immediato e anche dopo. Come o con chi, non so ancora: progettare, ora come ora e qui come qui, è amaro . Oggi, oltre al lavoro con Banda di Avola per cui auspichiamo anche un domani, sto partecipando ad uno spettacolo di e con Massimo Cirri e Andrea Segré, coi disegni originali di Altan: si intitola Spreco, eloquentemente.