Miles Davis e i quindici CD da collezionare – Parte Seconda

Foto da internet.










Miles Davis e i quindici CD da collezionare

Ovvero una veloce biografia attraverso i dischi storici.

Seconda Parte.


Passando ora al celebre quintetto – immortalato dal vivo al The Plugged Nickel – degli anni Sessanta con Shorter, Hancock, Carter e Williams, Miles ricorda perfettamente che “la musica che suonavamo insieme cambiava ogni fottutissima notte; se l’avevi ascoltata ieri era differente (…) stava andando da qualche altra parte (…) capace di eccitare tutti fino alla fine”. E Pino Candini a proposito del lavoro filologico postumo su Complete Live At The Plugged Nickel 1965 (Columbia 1965), aggiunge questo: “Teo Macero, il produttore delle session, racconta di aver voluto catturare a microfoni sempre aperti ogni istante delle performance di Miles e dei suoi compagni, una specie di “audio-vérité” sull’ambiente di un club, nel caso specifico di un locale angusto (non più di cento posti) e affollato, con tutti i rumori di fondo (…) A suo agio nel contatto ravvicinato con il pubblico, Miles si mette per così dire a nudo, svelando i segreti della sua arte improvvisativa”.


Con Miles In The Sky c’è già sentore di fusion, del resto lo stesso Davis ritornava ad esempio ad ascoltare il blues elettrico, giacché doveva “tornare a quelle cose adesso, perché quello che avevamo fatto stava cominciando a diventare veramente troppo astratto”. Ne conviene pure Claudio Sessa che a proposito di Miles In The Sky (Columbia 1968) scrive: “Fra i dischi pubblicati in quegli anni dal trombettista viene giudicato il più sbilanciato nei confronti della musica giovanile (complice anche la psichedelica copertina). In effetti il brano d’apertura, Stuff, non solo ha un chiaro sapore rock’n’roll ma usa piano elettrico, basso elettrico e sassofono amplificato. Eppure, nonostante l’inattesa, ipnotica ripetizione del tema, tutto si basa sulle logiche del jazz”.


Bitches Brew: l’ennesima svolta. Lapidario Miles: “Io ‘volevo’ cambiare strada, ‘dovevo’ cambiare strada per me stesso, per continuare a credere e amare quello che stavo facendo”. Luigi Onori su Bitches Brew (Columbia, 1969) è assai preciso: “Uno degli album più controversi di Davis, un capolavoro della sua poetica elettrica proiettato tanto in avanti da spiazzare pubblico e critica jazz ma non i giovani musicolofili. (…) Gli ensemble fluttuavano in lunghe escursioni in un jazz elettrico acido e mutante, sempre sospeso sul filo del rasoio, illuminato da interventi di tromba che davano prospettiva alla matassa di note e ritmi. (…) Una sua idea, per il momento più simbolica che funzionale, dell’Oriente e dell’Africa”.


Bitches Brew apre una stagione intensissima nella carriera davisiana, tra il 1969 e il 1970, come egli stesso ricorda: “In quel periodo penso di essere stato in studio almeno quindici volte e credo di aver finito, penso, almeno dieci album (qualcuno edito prima degli altri, ma tutti registrati durante questo periodo)”, dove non mancano nemmeno le occasioni dal vivo, come rivela la performance nel tempio del rock: per Claudio Sessa infatti, con At Fillmore (Columbia 1970), “La scelta di proporre quattro giornate in cui ricorrono le stesse melodie, dà vita a una sorta di particolarissimo laboratorio, dal grande fascino. Inoltre, qui Moreira si prende spazi molto maggiori e i tastieristi raddoppiano: il dinamico, competitivo scambio tra Corea e il nuovo arrivato Keith Jarrett è tra gli elementi più intensi del disco”.


Per Live Evil Davis sostiene di avvertire “lo stesso tipo di figura musicali che avevo sentito per Bitches Brew, soltanto un po’ più lavorate perché c’ero già passato sopra parecchie volte quando facemmo questo album: ancora per Claudio Sessa Live Evil (Columbia, 1970 è un’opera complessa, strepitosa, incompiuta: “Il suo corpo centrale è costituito da ampi brani di un concerto del 19 dicembre a Washington, ma si ascoltano anche brevi bozzetti realizzati in studio nei mesi precedenti. Sono squarci impressionistici, diversissimi da ogni altra cosa incisa dal trombettista, rimaste evidentemente allo stadio di ipotesi di lavoro non approfondite, che oggi meriterebbero di essere studiati come strani fossili di un’epoca troppo ricca di rivoluzioni”.


E si arriva al Davis funk, all’epoca trattato malissimo dai critici, ma il trombettista non demorde: “Ero sempre più interessato a sviluppare una sonorità nera e questo era quello che richiedevo alla mia testa allora, fare più ritmiche, più funk, piuttosto che del rockaccio bianco. Libero Farnè, ne rivela però i tratti salienti, discutendo l’antologico Get Up With It (Columbia, 1970-74): “Un concentrato di astrazione e concretezza, di ricerca del sublime e di compromissione con la mondanità, che simula l’evasione in fumi allucinogeni come l’immersione in magmatiche stratificazioni materiche. In certi temi e riff, in determinate soluzioni sonore e spunti chitarristici, Miles riesce persino a trasfigurare il banale insito nella musica di consumo”.


Miles ormai si apre totalmente alle sperimentazioni: “Cominciai a realizzare molte delle cose che Ornette mi aveva detto (…) e poteva essere veramente funky, tosto, così come appare a Claudio Sessa l’album live postumo Olympia, 11 juillet 1973 (Europe 1, 1973): “Elettronica, percussioni, distorsioni, lacerazioni melodiche, impassibilità armonica congiuravano a creare un accidentato terreno sonoro certo lontanissimo (checché se ne sia detto) dal rock jazz e dalla fusion, semmai parallelo al free più radicale o alle ricerche della coeva avanguardia chicagoana, newyorchese e californiana. Il brulicante magma sonoro di questo disco merita di essere riesplorato da chiunque non si accontenti di tanto jazz accademico degli anni Novanta”.


Continua Miles, ricordando i periodo 1971-1975: “La mia musica era una questione di spazi, di associazioni libere, di idee musicali intorno a un nocciolo fatto di ritmo e di spazi nelle linee basse”. Per Claudio Sessa, non a caso, discutendo Dark Magus (Columbia, 1974), parla di “Una musica volutamente schizofrenica, che va dal funky al free a seconda dei solisti. Davis, diviso fra tromba e organo, coordina i vari interventi quasi unificandoli a posteriori: la sua figura sembra avvicinarsi, anche a causa dell’importanza data alla tastiera elettronica, a quella del Sun Ra di qualche anno prima, e certo qui si ascolta il Davis più vicino alle avanguardie storiche”.


Arrivando infine all’ultimo periodo, sempre Davis è perentorio nel tipo di scelte: “La musica e i suoni sono diventati internazionali e non c’è senso a cercare di tornare iondietro. Un uomo non può tornare nel grembo di sua madre”. Ad esempio Live Around The World, uscito postumo, rende bene l’idea di quanto Miles vada facendo dal vivo negli ultimi tre anni prima della quasi improvvisa scomparsa e poco prima che si decida a omaggiare se stesso, risuonando in due occasioni – alla Villette con molti suoi ex orchestrali e a Montreux con Quincy Jones – i classici di un passato grandioso. Dunque Live Around The World (Warner Bros, 1988-91), secondo Pino Candini, “Il tellurico fondale delle percussioni, l’esasperato barocchismo timbrico delle tastiere (quasi una degenerazione tecnologica delle sublimi, aeree architetture gilevansiane) vanno viste, tutto sommato, come la cornice appropriata per produrre il magico contrasto con la tromba di Miles, con il suo canto lirico ed essenziale, la sua ancor più evidente solitudine poetica”.


E il futuro? Al termine della sua autobiografia Miles Davis afferma: “Per me il bisogno di suonare e cerare musica è più forte oggi di quando ho cominciato. E’ più intenso. E’ davvero come una maledizione”. E proprio questa maledizione lo colpirà inesorabilmente il 29 settembre 1991. Molti si rifaranno a lui, ma pochi nel modo giusto, tra i pochi riuscirci il pluristrumentista Bill Laswell nel remix Panthalassa: The Music Of Miles Davis 1969-1974, Columbia, 1997, poiché, come nota Claudio Sessa si tratta di un “creativo rimissaggio di Bill Laswell su una scelta di lavori milesiani della più innovativa ‘fase elettrica’ (…). Nel suo voler rintracciare la continuità di quel percorso davisiano (stirando le note, creando fondali elettronici e apparentemente, qua e là, inserendo frammenti sonori incongrui, insomma amalgamando le diverse proposte estetiche) ha anche un lato provocatoriamente positivo”.