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Slideshow. Sandro Marinoni.
Jazz Convention: Sandro, quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista?
Sandro Marinoni: Non c’è un motivo particolare, e la cosa è nata quasi per caso. Ho deciso di studiare musica, parallelamente ad altri studi, perché mi piaceva, naturalmente, e perché non mi pesava troppo lo studio sullo strumento. Dopo qualche anno ho incominciato a suonare stabilmente in varie formazioni e la faccenda mi divertiva. Così ho deciso di continuare.
JC: Ci riassumi in breve la tua carriera?
SM: Dopo gli studi classici sul flauto ho imparato a suonare il sassofono e ho fatto la gavetta canonica in gruppi minori. Sono poi entrato in una formazione di rhythm and blues torinese, con la sua brava sezione di fiati e tutto quanto, che suonava moltissimo, a volte anche quattro concerti alla settimana.
JC: E ti è servito fare r’n’b?
SM: Lì ho imparato veramente tanto. Ho imparato a stare sul palco, a non strafare negli assoli, a suonare in sezione, a suonare per valorizzare la canzone e non per far vedere quanto sono “bravo”. Insomma, è stata quella la mia vera e propria scuola. Qualche anno dopo, grazie all’amico chitarrista Gianni Opezzo, sono entrato a far parte degli Arcansiel, gruppo neo-prog che cercava, appunto, un sassofonista. Poi sono nati i SADO e poi c’è il presente.
JC: Qual è stato per te il momento più bello della tua attività di musicista?
SM: I momenti più belli sono quando la gente mi dice che si è emozionata ascoltando la mia musica. Quelli sono momenti impagabili, che compensano tutte le difficoltà e anche qualche occasionale scoraggiamento.
JC: Chi sono i tuoi maestri nel mondo dell’arte, della musica, della cultura?
SM: In musica maestri ne ho avuti tanti, specialmente pianisti. Art Tatum e Bill Evans su tutti. Ma mi hanno molto influenzato anche Lester Young con il suo sassofono e più avanti Jan Garbarek, e soprattutto Charles Mingus con tutta la sua musica straordinaria. La letteratura è l’altra grande passione che mi accompagna da sempre. Adoro, letteralmente, Franz Kafka, Jorge Luis Borges, Michael Bulgakov, e tanti altri. Non amo molto invece le arti visive, soprattutto il cinema. Chissà perché…
JC: Tra i dischi che hai registrato con i SADO o con altri, quale ami di più?
SM: Quello che deve ancora uscire!
JC: Dai, citamene almeno uno del recente passato…
SM: Se proprio devo, allora scelgo Incoming Call, edito da Clinical Archivies, uscito l’anno scorso a nome del trio Marinoni-Baracco-Petrelli, cioè il sotto scritto al sax tenore, al flauto e al trombone, Fabrizio Baracco al contrabbasso e Cesare Petrelli alla batteria.
JC: Come definiresti il tuo stile sassofonistico?
SM: Un mix, spero riuscito, tra Albert Ayler e Topo Gigio. A parte gli scherzi, è difficile per me rispondere a questa domanda. Non sono mai riuscito a capire cosa diavolo faccio con il mio sassofono. Figuriamoci definirlo.
JC: Cosa stai facendo ora a livello musicale?
SM: Ho due progetti che mi stanno particolarmente a cuore: uno è quello con i SADO, con il vulcanico e geniale Paolo Baltaro. Tra poco uscirà l’ultimo disco (si intitola Weather Underground) che trovo semplicemente meraviglioso. Con la solita ironia dei SADO e con tre voci recitanti tocca un argomento difficile e delicato come quello del terrorismo in America negli anni Settanta, con un suono che mescola di proposito le musiche dell’epoca (free, new thing, psycho-prog, fusion, jazzrock) con uno spirito nuovo.
JC: E l’altro progetto?
SM: Riguarda quello del collettivo Frames, creato con il sorprendente bassista Stefano Roncarolo e aperto a chiunque voglia parteciparvi. Anche qui c’è un disco in uscita (si intitola Frames, per non sbagliarsi) nel quale suonano, oltre a Stefano e a me, Boris Savoldelli, cantante dei SADO, il pianista russo Andrey Kutov e l’artista giapponese Kenji Siratori. Lasciatemelo dire: sono proprio orgoglioso di questi due dischi.