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Slideshow. Paolo Maggiora.
Jazz Convention: Mi racconti il primo ricordo che hai della musica?
Paolo Maggiora: Nonostante abbia iniziato presto a “schiaffeggiare” la tastiera di un mastodontico vecchio piano verticale, accolgo con piacere il tuo invito rievocando sensazioni risalenti alla mia adolescenza. Un giorno ero dalla maestra di pianoforte alla quale oggi sono più riconoscente per la sua apertura didattica rispetto al più tradizionale approccio allo studio della musica. Lei innescò presto in me l’interesse per “strane” note ed armonie. Ricordo un caldo pomeriggio estivo in un appartamento di città, la grande finestra spalancata e lei con generosità e vera passione mi ascoltava interpretare Gershwin o Debussy. Furono, seppur poche, stimolanti “performance” che lanciarono fuori da quella finestra ma soprattutto dentro di me i germogli del mio jazz. Davvero un bellissimo ricordo… Permettimi quindi di mandare affettuosamente alla maestra, che immagino oggi nel suo paradiso musicale, un mio forte e riconoscente abbraccio. Da allora ho approfondito la musica sempre più da autodidatta.
JC: Quali sono i motivi che poi ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?
PM: Come spesso capita, le prime formazioni musicali giovanili innescarono in me la fantasia di emulare i grandi musicisti famosi e la sfida tra i membri dei gruppi. Era un po’ blues, rock, a volte fusion o jazz, poco importava. La competizione con gli altri e, ancor più, quella con se stessi, sviluppò un sempre maggior istinto e ricerca d’espressione, invenzione, improvvisazione.
JC: E quali erano le materie prime per i tuoi approfondimenti?
PM: Erano i dischi o gli spartiti, il resto usciva sempre più piacevolmente dalle mani. Iniziò così il mio jazz. Oggi non faccio il musicista jazz di mestiere ma ciò non toglie alcuna vitalità alla mia passione, anzi, concentra nei momenti di musica quell’istinto così forte.
JC: Chi sono i tuoi maestri nel jazz?
PM: Qui cerco d’essere sintetico. Pressoché tutti noi musicisti abbiamo nella testa le note di Miles, John, Bill, Bird, Keith e via dicendo. Piuttosto provo a citarti alcuni tra i musicisti che per la loro peculiare arte ho trovato interessante approfondire scoprendo elevatissimo jazz e nuovi stimoli: Lennie Tristano, Joao Gilberto, Martial Solal.
JC: E tra gli italiani?
PM: Avrei molti artisti da menzionare, quindi mi limito ad invitare tutti ad esplorare la storia ed il presente del jazz italiano col piacere della continua scoperta di nuove emozionanti sorprese.
JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?
PM: Come direbbe Enzo Ferrari, mi auguro che il prossimo sia sempre il nuovo momento più bello, sia in termini di collaborazioni con grandi musicisti, sia per quanto riguarda le mie aspirazioni musicali come strumentista o compositore.
JC: Però guardando al passato…
PM: Fino ad oggi comunque ricordo sempre con piacere una lunga stagione musicale in uno scantinato di un locale dove io ed il mio gruppo ci divertivamo ad esplorare il repertorio brasiliano tra bossanova, choro, samba. Oppure l’esordio jazzistico nella mia città Valenza, con l’amico Ginetto, a duettare sul palco del teatro. E un altro bel momento è sempre poi anche la pubblicazione di un nuovo disco.
JC: Parlami allora del disco che hai appena pubblicato.
PM: Il nuovo disco, Empathy Time per la Splasc(H), nasce dalla collaborazione con Nando Massimello, sassofonista col quale ho già inciso un precedente CD, sempre in duo piano-sax, dal titolo Since we met. Anche in questo lavoro, quindi, si ritrova una musica che segue il filo conduttore ispirato dalle atmosfere create dal grande pianista Bill Evans. Poiché la nostra musica vuole anche essere un omaggio ai grandi autori, la scelta dei brani spazia attraverso molteplici stili, con arrangiamenti e reinterpretazioni in duo che diano però la possibilità di esprimerci al meglio e sempre senza perdere di vista il taglio prettamente pianistico del lavoro. Abbiamo posto anche una particolare attenzione all’aspetto ritmico di tutto l’album, nell’intenzione di proporre all’ascoltatore una sequenza dei brani che ne renda al tempo stesso più accattivante e gradevole l’ascolto.
JC: A questo punto ti chiedo come definiresti il jazz?
PM: Definisco essenzialmente il jazz come la libertà di espressione. E non limiterei il jazz all’ambito musicale. La libertà quindi, secondo me, può abbracciare fin dalle “materie prime” ogni aspetto espressivo o interpretativo compresi i mezzi, gli strumenti, gli organici. In altri termini le regole lasciano il posto alla libertà di pensiero e di linguaggio. Mi piace questa visione anche perché mi consente di includere o di rileggere in chiave jazzistica le più varie espressioni artistiche arrivando forse alla convergenza finale tra il jazz e l’Arte.
JC: Quali sono, in particolare, le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?
PM: Mi viene spontaneo associare alla musica jazz il concetto di novità. Quando si fa onestamente jazz le idee sono realmente nuove e scaturiscono dalla libera e spontanea elaborazione del patrimonio culturale del musicista. Personalmente associo sentimenti riflessivi e contemplativi in certe situazioni musicali. Altre volte invece lascio che le idee producano espressioni più estemporanee sulla tastiera. Penso che il valore basilare nel jazz rimanga l’onestà, la stessa che in passato innescò la nascita continua di nuove correnti ed espressioni jazzistiche.
JC: Come vedi, in generale, il presente della musica jazz?
PM: Oggi vedo tutta la cultura in pericolo, non solo il jazz. Le società che si fondano troppo sull’economia e non sulla cultura sono altamente a rischio di perdita dei valori derivanti dalla storia, dalle diversità, dalle individualità. Riscontro questo problema anche nella musica e quindi nel jazz. Tutto è sempre più riservato in nicchie sociali – club, circoli, piccole scuole – e poco è l’interscambio culturale o l’apertura all’esterno. Spesso i dischi diventano autoprodotti ed il mercato è governato dalle regole dei grandi numeri e delle grandi masse. Bisognerebbe iniziare a stimolare gli interessi nei giovani in modo che si generi maggiore domanda ma oggi questo incontrerebbe la difficoltà di rompere quelle regole, ormai cristallizzate, del potere e del denaro.
JC: E in specifico per l’Italia, come trovi la situazione oggi?
PM: Abbiamo, anche nel jazz italiano, un patrimonio di talenti potenzialmente inesauribile e auspico, con ottimismo, che un giorno si ricerchi quel piacere, non derivante dal possesso bensì dal vero appagamento sensoriale e artistico, che inneschi quella moltiplicazione culturale che oggi nel mondo si è quasi persa. I jazzisti hanno sempre molto da dire e certamente lo potrebbero fare meglio. Forza, teniamo duro e diamoci dentro!
JC: Paolo, cosa stai facendo ora a livello musicale?
PM: Collaboro con vari musicisti, sia come pianista che come consulente e tecnico per registrazioni, mixaggi e masterizzazioni (è un’altra delle mie passioni). Attualmente sto anche componendo nuovi brani da incidere con piccoli organici attorno al pianoforte, al piano elettrico o anche all’organo Hammond, che sto studiando.
JC: Classica domanda finale: quali sono i tuoi progetti musicali per il futuro?
PM: Uno dei miei sogni è di portare a termine un mio progetto musicale completamente originale con una nuova ricerca stilistica anche frutto della potenza dei computer che oggi offrono possibilità sonore ed espressive solo qualche anno fa inimmaginabili. Spero anche di concretizzare un nuovo interessante progetto discografico in collaborazione con il chitarrista Piero Pollone: combo jazz con quartetto d’archi…