Foto: Andrea Buccella
Pescara Jazz 2010.
Pescara, Teatro Monumento Gabriele D’Annunzio – 15/18.7.2010
A Pescara sempre ottima musica, ma con tante, troppe bizze delle star. Maggior rispetto per il pubblico e per operatori della musica e della fotografia. In altre parole: “educazione”.
È quello che si pretende, come minimo, dai musicisti che si esibiscono sul palco. Specialmente quando si tratta di palcoscenici importanti come quello di Pescara jazz. Invece, in questa calda estate del jazz, lo stile Keith Jarrett sembra aver fatto scuola, creando situazioni di disagio tra i citati “operatori”. L’artista jazz oggi tende sempre più a diventare pop star, distanziandosi sprezzantemente da chi lavora (o è costretto a farlo per la propria testata) quasi fosse un santo in terra. A Pescara il “caso” ha riguardato Diana Krall (ormai star hollywoodiana, tanto da superare il consorte Elvis Costello, costretto a fare il “maritino premuroso dietro le quinte”) e Pat Metheny, oggi affetto da sindrome hendrixiana o jaggeriana. In altre parole, dopo una trentennale militanza nel mondo del jazz, l’essere costretto a mendicare una foto, una banalissima fotografia di scena a corredo della recensione del festival, mi ha infastidito non poco. L’interesse, alla fine dei conti, è dell’artista. E con me, si sono indignati soprattutto la decina di fotografi professionisti obbligati a scattare al di fuori della “buca” preposta, agli estremi margini del palco per non più di un paio di pezzi, finiti i quali, si veniva minacciati di morte dai più che solerti (e ineducati) personaggi della security. Qualcuno si è addirittura permesso di “ordinare” ad alcuni fotografi di andare a posare le macchine fotografiche nell’auto e di pagare il biglietto per assistere al concerto. Influenza “berlusconiana?”
Ma lo sanno, la signora Krall-Costello e lo scarmigliato Metheny (saranno poi suoi quei capelli sempre uguali da 35 anni, salvo una prudente spolverata di grigio sulle tempie?) che devono il loro smisurato successo al pubblico che compra i loro dischi e alla pubblicità (sempre gratuita) che i giornali, specializzati e non, elargiscono copiosamente attraverso foto e scritti? Oppure vogliono i diritti sull’immagine? Eppure ricordo quando, nel 1983 a Villa Imperiale a Genova, Pat Metheny scendeva tra il pubblico a firmare autografi e farsi fotografare, concedendosi a chi lo avrebbe consacrato uno dei migliori (?) ed acclamati (questo sì) personaggi dello show business. I tempi cambiano. Cambiano “loro”, ma il pubblico e la critica no. Diana Krall e Pat Metheny non sono dei messia e il loro valore tecnico è poco più che mediocre se rapportato a una miriade di artisti di cui spesso si conosce a malapena il nome. Ma sono fior di musicisti. E soprattutto educati. Liquiderò le due performance del 15 e 16 luglio al teatro D’Annunzio, dicendo semplicemente che la finta-bionda-cantante-pianista, è un orologio svizzero, una “perfettina” che non lascia spazio alle emozioni. Uno show, il suo, perfettamente articolato e gradevole grazie soprattutto agli splendidi musicisti che si porta appresso. Primo tra tutti il chitarrista Anthony Wilson. Bella voce, la Krall, niente da eccepire, ma nulla a che vedere con le grandi singer di ieri e di oggi. Una pianista di buon livello, ma nel complesso un dejà vu.
Su Metheny, ancor meno da dire: maestria tecnica, ma per una musica da “ascensore” per palati di grana grossa. Personalmente, in questa sede, inviterei non solo il nostro direttore, ma i responsabili di tutte le testate giornalistiche italiane a non pubblicare per un determinato periodo le immagini dei bizzosi artisti. Ricordate quando Jarrett insultò il pubblico di Umbria Jazz, “rei” di aver scattato qualche foto e registrato qualche secondo di concerto sul telefonino? Del resto con lui non deve scappare neanche un colpo di tosse. “Non lo inviteremo più”, fu la risposta del patron Carlo Pagnotta. Da allora pare sia diventato perlomeno un po’ più tollerante con chi spende 80 euro o anche più, per assistere alla discesa del Dio in terra, o di chi si crede lo Chopin del jazz.
La seconda parte del festival è stata ottima e migliore della prima sotto ogni punto di vista. Il 17 luglio addirittura travolgente, con l’omaggio a Django Reinhardt nei due concerti “gitani”: un manifesto alla bravura e al virtuosismo su corde, con il trio Rosenberg e Bireli Lagrene nel primo e il violinista Florin Nicolescu, nel secondo. Miglior ricordo di Django oggi non potrebbe esserci nel Centenario della nascita. Tra Stochelo Rosenberg e Bireli Lagrene è stato ingaggiato un autentico contest di bravura, sensibilità, tecnica e poesia. Sono loro i più sinceri rappresentanti dell’arte “Manouche”, l’unico vero stile jazzistico creato in Europa. Del Manouche, o Gipsy Jazz, Rosenberg e Lagrene esprimono i pieni valori, esaltando questa cultura “diversa” e per questo autentica. Proprio come gli artisti che la eseguono. Un discorso che si estende anche al violinista Florin Nicolescu, il quale ha nobilitato la cultura gitana per un concerto ricco di situazioni blues, swing e classicheggianti, alla testa del proprio gruppo e dell’Orchestra Sinfonica di Pescara, diretta da Pasquale Veleno.
La grande sorpresa del festival ha un nome al femminile: Virginie Teychené, cantante dalle sorprendenti possibilità. La sua estensione vocale, unite a una disinvoltura nello scat, fanno di questa giovane cantante una delle più interessanti realtà. Il fraseggio che guarda a Miles Davis e Sonny Rollins non la relegano affatto al ruolo di “replicante”. L’esuberanza molto controllata e ragionata, fanno della Teychené un personaggio dal timbro inconfondibile e dalla presenza scenica da “veterana”, una definizione del tutto degna per chi vanta profondi studi nel campo della Giurisprudenza, della letteratura e della musica (da Maria Callas a Billie Holiday). Soli due CD al suo attivo, ma il suo curriculum è destinato a crescere rapidamente. Infine un plauso a Enrico Rava e al suo progetto su Gershwin. Come un guru alla testa di una band di giovani musicisti, ai quali si è eccezionalmente aggiunto il trombonista Gianluca Petrella, Rava ha dimostrato come interpretare un classico rivisitandolo in una chiave fresca e moderna. Nello stesso tempo il Gershwin di Rava diventa un compositore di straordinaria attualità che ci lascia intendere che i grandi compositori sono eterni.