Torino – 25-28 aprile 2024
Foto: Vincenzo Fugaldi
L’occasione fornita dal cinquantesimo anno dalla scomparsa di Ellington ha evidentemente ispirato il direttore artisticoStefano Zenni nelle sue scelte che, almeno nelle giornate che chi scrive ha potuto seguire (25-28 aprile), hanno colto il senso profondo di ciò che un jazz festival deve essere: non una mera rassegna o passerella di artisti più o meno appartenenti o accostabili al genere, ma piuttosto una riflessione sul senso culturale di questa musica, che da ben oltre un secolo continua a svilupparsi e a sorprendere gli ascoltatori di ogni continente perché colta e popolare, strutturata ma libera e libertaria, poggiante su una tradizione ma in costante movimento.
Ellington, dicevamo. “Steve e il Duca” è il titolo di un film di Germano Maccioni con Franco Maresco, che ha visto la luce grazie a una fortunata collaborazione fra la Lumpen Film, il Torino Jazz Festival e il Museo Nazionale del Cinema di Torino. Il documentario racconta, attraverso la voce e la presenza dello stesso Maresco in giro per Palermo, delle riprese da lui effettuate nel 1999 allo Spasimo, quando commissionò a Steve Lacy l’esecuzione di brani ellingtoniani per un concerto, e dell’intervista che a Lacy venne realizzata insieme a Daniele Ciprì. Immagini di grande valore, che ricordano e restituiscono l’enorme statura musicale del compianto Lacy e a un tempo riportano alla memoria il concerto palermitano dell’Orchestra di Ellington del 1970.
Ma la commistione (feconda come non mai) fra Musica e Cinema è stata ulteriormente comprovata dalla proiezione, alla presenza del regista, dei tre film di Mathieu Amalric “Zorn I”, “Zorn II” e “Zorn III”, propedeutica al concerto del New Masada al Lingotto. Il noto attore e cineasta francese (con un’ampia filmografia nei suoi diversi ruoli), stimolato anche dalle domande di Zenni, ha raccontato la genesi e lo sviluppo di questo suo “work in progress” inesaurito e inesauribile, che ha preso avvio nel 2010, grazie a un rapporto di fiducia e amicizia con Zorn. Destinati inizialmente, almeno nei desideri zorniani, a essere proiettati prima dei suoi concerti, questi tre mediometraggi (54′, 59′ e 78′ le durate) costituiscono degli eccezionali e unici documenti che testimoniano il genio al lavoro, le sue modalità di costruzione dei brani durante le prove e le esecuzioni, il modo di rapportarsi al lavoro degli esecutori, insomma ci portano esattamente dentro il laboratorio dell’artista John Zorn restituendone tutta la creatività e trasmettendo un’enorme energia, che è quella che permea l’opera dello statunitense. Tutto ciò è stato realizzato con mezzi tecnicamente essenziali dal solo Amalric, lavorando successivamente sul girato in fase di montaggio. Il risultato è di una tale rilevanza culturale (tra le più emozionanti incursioni in un processo creativo, vengono in mente le riprese del lavoro di Picasso effettuate da Clouzot) che una distribuzione internazionale (peraltro già avvenuta in Francia e prossimamente in Austria e Germania) si impone con forza, così come una diffusione su supporto fisico o almeno su piattaforma. Successivamente, in un auditorium Agnelli con i suoi 1900 posti tutto esaurito, il concerto del quartetto New Masada (oltre a Zorn all’alto, Julian Lage alla chitarra elettrica, Jorge Roeder al contrabbasso e Kenny Wollesen alla batteria), in un diluvio di potenza e intensità, con la consueta stringatezza, e con momenti di altissimo livello musicale, che hanno mostrato la caratteristica conduction zorniana, il modo come egli costruisce e organizza in tempo reale i brani sul palco, in un rapporto assolutamente magnetico verso gli altri musicisti, che – tutti singolarmente eccezionali esecutori – qui è come se acquistassero una marcia in più, infiammando il pubblico osannante.
Tornando al tema ellingtoniano: il progetto “Suite Duke” di Alexander Hawkins e Matt Wright, commissionato al duo britannico dal direttore artistico del festival, è un’opera di finissima poesia sul mondo del Duca. Sullo sfondo di immagini in movimento che ritraevano Hawkins al pianoforte, con sovrapposizione di foto storiche – appartenenti a Hawkins – del Duca e dei suoi musicisti risalenti a un tour del 1963, il tour che ispirò la “Far East Suite”, con immagini di città come Isfahan, Kabul, Colombo, Lahore e altre, insieme a interni della sua casa ad Harlem, ai lati del palco il pianista e il sound designer Wright, che forniva un tappeto sonoro costituito da improvvisazioni pianistiche su brani ellingtoniani dello stesso Hawkins – una registrazione di “Prelude to a kiss” di un paio di anni fa – e rielaborazioni di suoni originali dell’orchestra, con i caratteristici suoni growl e jungle che contraddistinguevano gli inizi della compagine. Su questo tappeto sonoro e visuale, accogliente e pregnante, si stagliava il pianismo di Hawkins, che ha mostrato di aver colto tutta l’essenza della poetica ellingtoniana, muovendosi tra alcuni classici del Duca con tatto e riverenza ma senza trascurare la sua marcata vena improvvisativa, confrontandosi con fantasmatiche ombre del mondo ellingtoniano magicamente evocate da Wright. Una delizia per chi ha avuto la fortuna di esserci, che si spera possa trovare spazio anche in altri numerosi festival italiani ed europei.
La committenza ha richiesto alla direzione artistica di distribuire il festival tra diversi spazi della città, per non privilegiare solo il centro storico. Ciò ha comportato ovviamente la necessità di spostarsi, ma ha dato anche l’opportunità di conoscere tante diverse opportunità che la città offre per quanto riguarda gli spazi per la musica. Scorrendo il programma, va dato atto al direttore artistico di aver interpretato l’esigenza di soddisfare un pubblico ampio, comprendente sia coloro che non disdegnano il jazz più avanzato, sia coloro che prediligono scelte più semplici e popolari. Emblematica in tal senso la data del 25 aprile, quando nelle ore pomeridiane, in un locale della zona sud della città, l’Hiroshima Mon Amour, è arrivato Sélébéyone, il progetto di Steve Lehman, con Maciek Lasserre al soprano, Hprizm/High Priest e Gaston Bandimic alle voci e Damion Reid alla batteria. Il termine Sélébéyone indica mescolanza, e qui si mescolavano il rap senegalese di Bandimic e quello newyorchese di Hprizm, creando una vivacissima e stimolante base linguistica sulla quale i dinamici sassofoni, l’alto del leader e il soprano scatenavano fraseggi vorticosi, sulla solida e potente base ritmica di Reid. Composizioni brevi, utilizzo di basi preregistrate contenenti spoken worlds e musica, per una proposta che sconvolgeva totalmente i confini fra i generi, mettendo insieme mondi apparentemente divergenti come l’hip hop e il free, l’America nera e l’Africa, la celebralità di fondo della musica lehmaniana e una travolgente base ritmica. Il risultato è sorprendente, perché la musica che ne scaturisce, pur non essendo di semplicissima fruizione, attira e coinvolge un pubblico finalmente più giovane, incline a un ascolto più partecipato, in una platea totalmente priva di sedie.
Al Teatro Regio, capienza 1500 persone, tutto esaurito, nella stessa serata, per celebrare la Resistenza, in memoria di Dante Di Nanni, la Città di Torino e il Comitato Resistenza e Costituzione della Regione Piemonte hanno fatto precedere lo spettacolo di Fatuomata Diawara e del suo quartetto da una toccante testimonianza di una testimone, Adriana Cantore, detenuta dai nazisti alle Carceri Nuove, accolta da un applauso interminabile, e dalla lettura di brani scelti. Apprezzabilissima la scelta di affidare la serata alla cantante maliana, che in una cornice di ben eseguito pop africano ha tenuto uno spettacolo lungo e coinvolgente, con l’utilizzo anche di basi preregistrate e la proiezione di bei filmati girati sul territorio africano, e non ha mancato di ricordare le purtroppo tuttora esistenti sofferenze di molte donne africane a causa della infame pratica delle mutilazioni genitali femminili.
Per il resto, “Goodbye Ground”, il concerto per solo sassofono (tenore e alto) di Sakina Abdou è parso solo parzialmente convincente nel set pomeridiano, eccettuato il secondo brano eseguito all’alto, e l’omaggio fantascientifico a Duke Ellington “Down Bit Duke” concepito da Stefano Risso e Mattia Barbieri, con ospite il tenore e il clarinetto di Francesco Bearzatti, pur interessante negli intenti (sullo sfondo di elaborazioni video di spezzoni del film di Otto Preminger “Anatomy of a Murder” il trio utilizzava frammenti della colonna sonora del Duca costruendovi sopra altri brani) è stato penalizzato da un’acustica impossibile, e l’atteso duo fra l’ottantatreenne Roscoe Mitchell (al sax basso e al soprano ricurvo) e Michele Rabbia (alle percussioni) non ha spiccato il volo, cosa che peraltro non è affatto rara per chi si aggira nei territori dell’improvvisazione radicale, pur non deludendo il riverente pubblico che affollava la Sala 500 del Lingotto.
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