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La creatività e la chitarra.
Dialogo con Simone Guiducci su Jimi Hendrix.
Ricorre in questi giorni il quarantesimo anniversario della morte di Jimi Hendrix. Abbiamo voluto tracciare con il chitarrista Simone Guiducci un bilancio dell’influenza di Hendrix sul vocabolario, sulla sonorità e sulla visione generale del musicista di jazz di oggi. «Va detto che la chitarra jazz, prima di Jimi Hendrix, ha dei nomi di riferimento ben precisi – Wes Montgomery, Jim Hall, Barney Kessel – e lo strumento veniva sfruttato esclusivamente in una modalità semiacustica.»
Come per ogni progresso musicale, non tutto il merito può essere ascritto ad un unico personaggio. Di sicuro la rivoluzione delle sonorità della chitarra jazz trova in Hendrix e nel percorso elettrico di Miles Davis dei primi anni ’70 due esempi di prima grandezza. «Tutti quelli che hanno ascoltato Hendrix sin dalla fine degli anni ’60, compresi coloro che si sono poi avvicinati al jazz, non hanno potuto fare a meno di comprendere come il suo stile – il suono distorto, molto compresso, molto presente nel confronto con gli altri strumenti – poteva contribuire a rendere la chitarra anche nel jazz una voce solista paragonabile agli altri strumenti, la tromba, il sassofono, il pianoforte. A questo bisogna aggiungere l’impatto dell’uso di Hendrix per quel che riguarda l’effettistica, un elemento che poi si è esteso a tutti gli altri strumenti.» L’utilizzo del wah-wah, del feedback, di effetti destinati a “sfasare” il suono, insomma le sonorità psichedeliche, entrano a far parte del vocabolario di Davis. «Miles ha iniziato a pretendere dai suoi musicisti quelle sonorità: ha utilizzato organici dove la chitarra aveva una presenza forte – basta pensare all’uso del Fender Rhodes di Jarrett e Chick Corea “passato” attraverso gli effetti – e, successivamente, ha imposto ai chitarristi di realizzare sonorità vicine a quelle di Hendrix. Quel momento è stato determinante per lo sviluppo del chitarrismo post-hendrixiano.»
Hendrix è stato un musicista in grado di scardinare le barriere tra i generi: anche questa diventa una chiave per interpretare il rapporto dei musicisti di oggi, soprattutto nel jazz, con la figura di Hendrix. «E’ vero, questa è una cosa che percepisco sia ascoltando la sua musica che quella dei Beatles. A distanza di tanti anni si avverte il fatto di aver superato per la prima volta le barriere tra i generi e di aver creato un “laboratorio di ricerca”; questo elemento è loro appannaggio, successivamente anche Frank Zappa ha fatto cose paragonabili, toccando jazz, rock, psichedelia e forma-canzone. Per me la loro importanza nello sviluppo della musica moderna è indiscutibile: la loro influenza si ritrova in moltissimi dischi di gruppi odierni. Anche a livello tecnologico: sovraincisioni, utilizzo di cose che all’epoca nessuno sognava, sia i Beatles che Hendrix erano all’avanguardia e hanno aperto la strada per gli altri.»
Hendrix unisce la ricerca sui linguaggi e sui nuovi suoni, la pratica dell’improvvisazione, il richiamo, fortissimo, al blues e la voglia continua di esplorare linguaggi diversi. La novità di alcune sue composizioni e di certe sintesi ritmiche e armoniche ha messo in luce l’inventiva e la capacità di sintesi di Hendrix e lo rende l’antesignano del musicista creativo di oggi, anche nel modo di pensare la musica. «L’influsso della musica americana sulla scena londinese, all’inizio degli anni ’60, era limitata al blues ed in effetti il suono dei gruppi inglesi dell’epoca era strettamente legato al blues, si pensi ai Rolling Stones o a Clapton quando agli inizi suonava con John Mayall. Dal momento in cui Hendrix emerge a Londra, si comincia a pensare che il rock possa essere un luogo dove la libertà diventa principale rispetto alla forma della canzone. La struttura del blues certo è immortale ma è anche per sua natura statica; Hendrix certo poteva suonare blues alla grande, perchè aveva tutta la tradizione alle spalle, ma questo non era il suo interesse principale: la sua strada era quella di sperimentare e trovare una via personale. Lo stesso accade per i Beatles soprattutto nella seconda parte della loro carriera. Questo approccio, insieme a quello di Miles Davis rimane alla base della libertà del musicista jazz di oggi; tra l’altro la vicinanza temporale tra questi geni è un elemento importante: molte delle cose che diciamo di Hendrix possiamo applicarle a Davis. Il jazzista contemporaneo, in effetti, non può prescindere da questi personaggi, a meno che non decida di suonare in maniera filologica, ad esempio nello stile di Louis Armstrong o Charlie Parker.»
La musica di Hendrix trascende il momento storico in cui appare: il chitarrista è stato, senz’altro, uno dei musicisti più importanti del ventesimo secolo per la capacità di rinnovare il linguaggio espressivo a tutti i livelli – chitarristico, compositivo, interpretativo. Per ogni chitarrista di oggi il rapporto con Hendrix è un passo importante: l’uso delle dita, l’idea del movimento delle mani, l’approccio alla pentatonica. «Quando un allievo mi chiede della chitarra moderna, io parto sempre da Hendrix e dal suo sistema di accordi legato alle cinque posizioni, dimostro loro come questa cosa, semplice nel concetto, vada studiata approfonditamente perché possa portare dei frutti e per capire come lui suonava Little Wing o Castles Made of Sand o tutti i suoi brani più ricchi armonicamente. Al di là del suo virtuosismo, strettamente legato alla scuola blues. A livello di accordi è una enorme fonte di conoscenza.» A questo vanno aggiunti gli elementi di maggiore impatto, l’elettricità, il volume, la capacità di rendere anche la dimensione del feedback e della distorsione un ulteriore strumento: possibilità che. poco a poco, entrano nel vocabolario espressivo del jazz e della musica creativa. «All’inizio, quando ho abbracciato la chitarra, il mio è stato un approccio di esaltazione emotiva e di imitazione spudorata di Hendrix. A 17 anni avevo una Les Paul – non una Fender Stratocaster come Jimi – ma avevo fatto dipingere il viso di Hendrix… Dopo c’è stata una maturazione. Personalmente, dopo anni di chitarra acustica, c’è voluto molto tempo per recuperare il mio background hendrixiano. Ero riuscito a farlo parzialmente riemergere con il quartetto elettrico Trapezomantilo di Mauro Negri e, dopo anni, proprio recentemente, sono riuscito a dar spazio ad un approccio radicalmente psichedelico nel mio nuovo lavoro su Django Reinhardt. Ho formato un sestetto elettrico con Achille Succi al contralto, Mauro Ottolini al tuba e al trombone, Emanuele Parrini al violino e una ritmica quasi rock, formata da Zeno De Rossi alla batteria e Danilo Gallo al contrabbasso. Io suono l’elettrica tentando di collocarmi fra Reinhardt, Frank Zappa, Bill Frisell e Jimi Hendrix… Certo, interpretare Django con le sonorità elettriche di Hendrix può sembrare azzardato, ma a spingermi avanti è stata l’idea che, secondo me, tra i due ci sono delle similitudini forti, sono entrambi musicisti di frontiera, di cuore e di istinto, e proprio perché privi di conoscenze teoriche, assolutamente privi di pregiudizi fra i generi… due geni. E la loro è musica aperta all’evoluzione.»
Anche per Hendrix, come per Django Reinhardt, viene spesso messo in evidenza il lato del virtuosismo – suonare con i denti, bruciare o distruggere la chitarra – e si perde di vista, in alcuni casi, la grandezza di entrambi, la capacità compositiva e la visione musicale complessiva. «In effetti un lavoro molto rispettoso della grandezza di Hendrix è stato quello di Gil Evans: Evans ha studiato in profondità le strutture ed i voicing usati da Hendrix per creare gli arrangiamenti, perché all’interno di quei voicing c’è un pensiero globale, orchestrale. Lo stesso vale per Django Reinhardt. Stiamo parlando di personaggi che vanno approcciati in maniera ponderata, approfondita altrimenti prevale il lato dell’imitazione. Il lavoro di Gil Evans è un lavoro che va riascoltato per rendersi conto di come un grande cervello avesse compreso quante implicazioni avesse la musica di Hendrix dal punto di vista compositivo e anche degli arrangiamenti.»