Luca Garlaschelli: Mingus in Strings!

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Luca Garlaschelli: Mingus in Strings!


Luca Garlaschelli è un ottimo e poliedrico contrabbassista che non limita la sua attività esclusivamente al jazz, ma spazia all’interno delle “musiche colte” con piglio da esploratore e curiosità onnivora. Il suo nuovo disco si chiama Musikorchestra – Mingus in Strings vol. 1. E’ un coraggioso progetto che rivisita la musica di Charles Mingus attraverso un quintetto d’archi che gravita attorno al contrabbasso di Garlaschelli; ci sono inoltre alcuni brani che ospitano gli interventi della cantante Tiziana Ghiglioni, del pianista Davide Corini e del clarinettista Paolo Tomelleri. Il CD contiene undici brani, di cui dieci appartengono al repertorio mingusiano ed uno, Mingus tango, scritto dallo stesso Garlaschelli.


Mingus in Strings può essere definito come una sorta di fusione, originale e piacevolmente orecchiabile, tra jazz e classica, preservando lo spirito d’improvvisazione del jazz e la profonda vena blues tipica della musica di Mingus. Basta ascoltare alcuni brani come l’iniziale Haitian Fight Song oppure Self Portrait in three colors per avere conferma di quanto si è detto. In occasione dell’uscita del disco abbiamo chiesto a Luca Garlaschelli di raccontare la sua carriera e commentare il progetto di Mingus in Strings vol. 1.



Luca Garlaschelli: Ho cominciato ad amare il jazz quando avevo dodici/tredici anni ascoltando Bill Evans. Suonavo e studiavo chitarra e pianoforte. Allora non c’erano tante scuole. Così ho preso la tenda e sono andato a Siena Jazz, era il 1982. C’era anche Paolo Fresu. Ho frequentato per tre anni Siena Jazz e poi ho cominciato a studiare in conservatorio. Lì ho incontrato un grande maestro del contrabbasso, avevo diciotto anni. Poi il pianista Piero Bassini mi fa fare la prima serata al Capolinea di Milano: comincia la mia avventura professionale. Erano anni in cui si suonava tanto. Nel frattempo mi sono diplomato in contrabbasso e ho cominciato altre collaborazioni con musicisti come Paolo Tomelleri, Carlo Cagnoli, Tony Scott, Mario Rusca, Arrigo Cappelletti, Tiziana Ghiglioni, Stefano Battaglia, tutti del “giro” milanese.



Jazz Convention: In quel periodo non suonavi solo jazz…


LG: Per l’appunto ho cominciato a collaborare anche in ambiti extra jazzistici con Moni Ovadia e con uno dei più grandi baritoni della musica lirica, Leo Nucci, con cui ho suonato in concerti con quartetto d’archi, contrabbasso e pianoforte. Poi ho lasciato Ovadia perché volevo suonare di più e non volevo fare, allora…, musica per il teatro. Così mi sono dedicato solo al jazz, collaborando con musicisti come Franco D’Andrea, Enrico Rava, Paolo Fresu, Gianluigi Trovesi, Tiziana Ghiglioni. Poi è arrivato il sodalizio con Giulio Capiozzo: allora prendeva musicisti americani e organizzava tournè in Italia. Così ho preso a suonare con Bruce Forman, Jimmy Owens, George Cables, Steve Turrè, Harold Land… Esperienze che mi hanno fatto crescere tantissimo dal punto di vista musicale.



JC: Stando alla tua biografia hai cominciato in quel periodo ad incidere dischi….


LG: Si, credo di averne registrati una sessantina, tra i miei e gli altri. Ricordo ancora le registrazioni con Franco D’Andrea e Michael Rosen; poi un bel disco che avevo fatto con un quintetto d’archi e i dischi con Piero Bassini, uno dei quali ha avuto una certa notorietà piazzandosi molto bene nella classifica della rivista Musica Jazz. Alla batteria c’era Ettore Fioravanti. Questo per quanto riguarda la parte jazzista.
Quella non jazzistica si apre con un disco che ho realizzato con Moni Ovadia, Oylem Goylem. Alla fine degli anni novanta ho costituito un gruppo chiamato Musikorchestra, che sarà il nome che darò a tutti i miei gruppi: comincia la mia carriera solistica. Con questo gruppo ho inciso Don’t Forget… (1999), primo disco, con ospiti Tiziana Ghiglioni e Moni Ovadia. Poi ne è uscito un altro nel 2001 The Sound of Dream e nel 1994 Salam Alayekum, dal sapore quasi etnico, registrato dopo essere stato con il pianista Gaetano Liguori a Beirut. Dopo è venuto Mai Tardi (2008), un lavoro sui partigiani a cui sono molto affezionato. Adesso questo Mingus in Strings.



JC: Come è nato Mingus in Strings?


LG: Il disco è nato da un lavoro fatto in una grossa orchestra che dirigevo, la Big Orchestra del Crams di Lecco; era un progetto su Mingus tra didattica e professionismo. Il lavoro è durato due anni. Il gruppo comprendeva dodici fiati più la sezione ritmica. Ho dovuto scrivere gli arrangiamenti e di conseguenza studiare a fondo la musica del grande contrabbassista americano. Da allora mi è nata l’idea di questo progetto. Ho notato che la musica di Mingus ha delle caratteristiche armoniche e melodiche che vengono spesso scalzate dal grande impatto ritmico. Ho sempre pensato che il concentrato della musica di Mingus potesse essere raffigurato da una formazione molto cameristica, come quella del quintetto d’archi. è una scommessa! Secondo me vinta, anche per il fatto che negli anni abbiamo avuto la crescita di musicisti specializzati nell’uso dello strumento ad arco che, oltre a leggere ed interpretare la musica, sono anche degli ottimi improvvisatori. Emanuele Parrini e Paolo Botti, che mi aiutano e sono due quinti del gruppo, sono fondamentali perché rappresentano modi di suonare il violino e la viola inusitati nel nostro studio normale ed interpretativo. Eliana Gintoli e Mariella Sanvito sono anche loro fondamentali perché danno ordine nel gruppo.



JC: I musicisti del quintetto vengono tutti dall’orchestra?


LG: Eliana e Mariella sì, suonano normalmente nell’orchestra e sono ottime soliste. Per loro e per gli altri componenti del quintetto scrivo tutto, però ci sono degli spazi improvvisativi in cui interagiamo.



JC: Nel disco ci sono altri ospiti….


LG: All’interno del disco suonano Tiziana Ghiglioni in Portrait, che considero la più grande cantante jazz che abbiamo; Paolo Tomelleri al clarino, che ha collaborato con un suo cameo in Jelly roll arrangiato in stile tradizionale; e Davide Corini al piano che ha impreziosito il brano, Jump Monk.



JC: Come hai scelto i pezzi di Mingus? Sappiamo tutti che il suo repertorio è vastissimo e ricco di brani splendidi ma difficoltosi… .


LG: Il disco si chiama Mingus in Strings vol. 1 perché l’idea è di continuare il progetto sul contrabbassista, senza pensare obbligatoriamente di fare l’opera omnia. Direi comunque che la scelta dei brani è stata abbastanza casuale: mi metto al pianoforte, me li leggo e decido quelli da interpretare.



JC: Rispetto al tuo disco precedente, Mai Tardi del 2008, Mingus in Strings è completamente diverso. Che cosa significa questo nella tua carriera di musicista, compositore e arrangiatore?


LG: Credo che sia fondamentale per tutti i musicisti fare una ricerca sul linguaggio. Questa ricerca deve essere fatta secondo le caratteristiche dei musicisti in gioco. è chiaro che in questo caso la ricerca timbrica e strumentale è in primo piano. Anche in Mai Tardi c’era stata una ricerca: ho pensato ad una tromba con due clarinetti. Che poi guarda caso i due strumenti sono la front line della musica klezmer, da cui sono stato influenzato lavorando con Moni Ovadia. Credo che Mingus in Strings sia il lavoro più jazzistico che io abbia mai fatto fino adesso. è anche la prima volta che incido con musica non mia – nel disco ci sono dieci brani di Mingus e uno, Mingus Tango, scritto da me.



JC: Cosa lega Mingus al tango, perché hai scelto di scrivere un brano….


LG: Il tango è una di quelle forme musicali apparentemente lontane da Mingus perché lui non lo ha mai frequentato; però la passionalità del tango è una cosa che l’avvicina molto a quel mondo lì. Volevo anche ribadire la volontà di scrivere musica propria all’interno di progetti di altri.



JC: è stato difficile costruire, vista la complessità della musica di Mingus, un progetto musicale da rendere fruibile e nello stesso tempo adattabile a strumenti inconsueti per il jazz, preservandone lo spirito?


LG: Questo tipo di lavoro, in un certo senso, libera Mingus dalla sua storia e dal suo modo di fare musica. Usando la sua musica su un terreno strumentale diverso dal jazz, gli si conferisce una statura artistica simile a quella che hanno Duke Ellington, George Gershwin. Spesso anche musicisti classici hanno visto le loro opere prese e trasformate, si pensi a Mozart. Così diventa materiale musicale di libero accesso per le idee di tutti.
Non è tanto importante come i grandi suonavano la propria musica, quanto invece lo è la musica stessa che hanno suonato. L’operazione che ho fatto vuol essere un po’ questo: liberare Mingus dagli stereotipi, per cogliere solo l’essenza di quello che lui ha scritto e trasporla in una formazione musicale quasi antitetica a quello che lui rappresentava.



JC: La casa discografica? Come è andata con loro?


LG: Con i ragazzi della SNJ Records mi sono trovato benissimo. Ho chiamato il direttore artistico che è Tullio Ricci, bravissimo sassofonista, e gli ho proposto questo progetto, mi ha detto solo “va bene, dicci quando vai in sala”.