Le giovani professioni del jazz.

Foto: Fabio Ciminiera





Le giovani professioni del jazz.

Roma, Auditorium Parco della Musica – 16.11.2010


La notizia non c’è o, meglio, non dovrebbe esserci. Il fatto che una discreta quantità di operatori del jazz italiano si riunisca per fare il punto della situazione, per porre in essere una mutua collaborazione rivolta ad obiettivi comuni e che, in particolare, puntando su una “larga” appartenenza generazionale, si parli di “giovani” professioni in ascesa intorno al mondo del jazz dovrebbe essere inutile, in qualche modo, in un paese normale e, a maggior ragione in un paese che propone una scena nazionale estremamente ricca, composta di individualità di altissimo profilo e di un tripudio di festival e rassegne.


Se l’idea promossa a latere del cartellone del Roma Jazz Festival, vale a dire una tavola rotonda rivolta alle Giovani professioni del jazz, questo il titolo dato all’incontro, con l’intento di dare risalto e visibilità a realtà diverse, di mettere intorno a un tavolo problemi e soluzioni, ha portato una discreta affluenza di operatori e musicisti; se il dibattito si è prima prolungato in sala per un paio d’ore e poi nei capannelli più ridotti, evidentemente un motivo ci deve essere. E ci deve essere anche un motivo nel fatto che molti dei personaggi convenuti, magari per la distanza tra capitale e provincie, non si conoscessero di persona, al massimo via e-mail o telefono, e che in realtà non ci sia un vero e proprio censimento di festival, club e operatori, così come non c’è un catalogo delle buone prassi – nonostante ce ne siano – e manca un’idea di cammino comune.


Mettere in relazione le diverse esperienze è una strada difficile e diverse volte già tentata con successi alquanto relativi. Dalle iniziative sindacali alle edizioni del Meeting del Jazz in Italia a Terni a moltissime altre varie provenienza e modalità. Esperienze certo non risolutive, anche se non necessariamente fallimentari, in quanto in molti casi sono servite per far incontrare persone e per mettere a confronto percorsi. Credo di aver assistito negli ultimi dieci anni e alle varie latitudini della penisola a diversi incontri, conferenze stampa, tavole rotonde e dibattiti sulla situazione del jazz e, anche più in generale, della cultura in Italia, dove ovviamente la sottolineatura dei problemi provati in prima persona dagli operatori diventa il nocciolo centrale del discorso.


Reciproca conoscenza e riconoscibilità, da una parte, e scatto generazionale dovuto alla presenza di persone determinate a far diventare una professione la passione per il jazz e per le iniziative culturali. La tavola rotonda si è aperta con il momento per certi versi istituzionale e un po’ autoreferenziale della presentazione di sé e delle proprie esperienze: anche questo passaggio è stato utile per dare evidenza al fatto che il panorama nazionale offre, più che una scena o una somma di scene, una vasta e variopinta galleria di esperienze singole. Per inciso, il rituale delle presentazioni è proseguito anche al termine della serata.


La generazione che va dai trenta ai quarant’anni è la prima a porsi in maniera sistematica il problema del professionismo nel campo della cultura e dello spettacolo. Con questo non si vuole nemmeno per un secondo insinuare il dubbio che non ci siano state professionalità prima, anzi. Ma è un fatto che gli operatori si confrontano ancora, soprattutto in provincia, con una forte mancanza di rispetto e consapevolezza da parte di molti interlocutori per il lavoro necessario a dar vita a ciascuna iniziativa. Anche se negli anni, in realtà, sono nate e si sono sviluppate scuole, si tengono corsi di formazione e approfondimento, si sono evidenziati ruoli e necessità, si è creata una sensibilità tale da cominciare a rendere visibile il “lavoro della cultura”.


Difficolta a parte, la realtà frammentata e ricca di forti individualismi ha messo di fronte al problema più tangibile e disarmante fra tutti: la mancanza di un sistema complessivo. Nelle fiere musicali e culturali internazionali, ad esempio, difficilmente il jazz italiano si presenta come entità unica con proposte unitarie. L’incontro si è dato questo come obiettivo di medio termine, insieme ad altri risultati possibili, anche puntuali o legati a scadenze precise. Ma questo primo fatto porta ad un altro punto dalla soluzione altrettanto difficile: la scelta, cioé, di chi dovrà operare le decisioni. È inutile sottolineare come molte delle persone coinvolte nella scena jazzistica e, in particolare, nei ruoli più rilevanti siano afflitte da conflitti di interesse e si siano misurate con più compiti contemporaneamente, dalla produzione alla direzione artistica, dalla comunicazione alla critica. Un soggetto plurale, condiviso e terzo, non esiste ed è ancora lontano dall’essere costituito al momento, se si pensa ad un’esperienza come quelle del FIMIC, la struttura che si occupa di “esportare” la musica, non solo il jazz, finlandese oltre i loro confini. Se la scelta dovesse cadere su uno dei soggetti attualmente esistenti, si dovrebbe, al più, scegliere tra coloro meno afflitti da conflitti di interesse. E, con questa considerazione, diventa palese come sia lunga e tortuosa la strada da intraprendere.


L’incontro sarà stato positivo se avrà un seguito e se ci sarà una volontà profonda di lavorare su questi obiettivi. Sinora non si è realizzato, ma la crisi e la questione generazionale potrebbero portare di nuovo a quella situazione che quarant’anni fa vedeva i primi festival jazz europei dialogare con grande democrazia: all’estero questo dialogo – sia pure con difficoltà, interruzioni e incomprensioni – è andato avanti a livello continentale e nelle diverse nazioni; in Italia questo non è successo o, se è successo, ha dato luogo a piccoli gruppi legati da interessi comuni, cosa che in sé e per sé non costituisce uno scandalo e che in alcuni casi specifici ha portato anche risultati apprezzabili, ma che alla lunga ha prodotto la situazione attuale.