Slideshow. Matteo Negrin

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Slideshow. Matteo Negrin.


Jazz Convention: Mi racconti il primo ricordo che hai della musica?


Matteo Negrin: A essere del tutto sinceri, non c’era molta musica a casa dei miei genitori, giusto un disco dei Beatles e un paio degli Inti Illimani. Tuttavia, mi ricordo la mia nonna materna che suonava il pianoforte. La ascoltavo, seduto di fianco a lei, suonare i brani preferiti del nonno: la sonata “Al chiaro di luna” di Beethoven, il Notturno n°2 in mi bemolle di Chopin e alcune romanze di Mendelssohn. Alla fine si alzava dal pianoforte dicendo che aveva fatto “un sacco di errori”, ma a me piaceva comunque moltissimo.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?


MN: All’età di dodici anni suonavo buona parte del repertorio del primo Pino Daniele, e qualche amico più grande mi disse che se volevo capire meglio quella musica dovevo studiare il jazz. Comprai allora un disco di Miles Davis in offerta – non un titolo storico – per poche migliaia di lire e ne rimasi folgorato. A tutt’oggi i CD di Miles occupano uno scaffale a parte, tutto per loro, nella mia discoteca.



JC: Chi sono i tuoi maestri nel jazz?


MN: Nel jazz i maestri sono certamente le persone con cui si è fatto un percorso di studio, ma anche musicisti e compositori magari mai incontrati personalmente ma che sono stati oggetto di analisi e di studio. Tra i primi ricordo con sincero affetto il chitarrista Franco Cerri, su tutti. Tra i maestri d’elezione, se così si può dire, citerei senza dubbio ancora Miles e poi, forse paradossalmente, più pianisti che chitarristi: Thelonious Monk, Bill Evans, John Taylor, Riccardo Zegna…



JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


MN: Spero ovviamente che il momento più bello debba ancora arrivare! Ad oggi, tra i momenti più emozionanti ricordo un concerto al Symphony Space di New York nel marzo del 2005. Nonostante sia fermamente convinto dell’assoluta dignità e autonomia del jazz europeo, penso che il riconoscimento più gratificante che un musicista jazz possa ricevere sia ancora quello che si riceve sul palcoscenico di un teatro di New York.



JC: Tra i dischi che hai registrato, quale ami di più?


MN: A oggi ho registrato una dozzina di dischi, non tutti di jazz e non tutti a mio nome. Sicuramente l’atteggiamento che mi è più proprio è pensare al disco successivo piuttosto che ai lavori passati, anche se penso che il Cd “Jouer sans Frontières” uscito per Dodicilune un paio d’anni fa rispecchi abbastanza fedelmente come vedo il jazz in questo periodo: molto Mar Mediterraneo, suoni iper-acustici e un pizzico di elettronica.



JC: Come definiresti il jazz?


MN: Cercare nel 2010 di definire il jazz è un po’ come cercare di dare una definizione al rock o alla cosiddetta musica classica: non c’è più un linguaggio univoco riconducibile allo swing, quanto piuttosto una pluralità di linguaggi spesso in dialogo tra loro. Lo spirito costitutivo del jazz nel ventunesimo secolo è a mio parere l’incondizionata tendenza interpretativa e improvvisativa nell’approccio al brano musicale. Mi spiego meglio: il jazzista può attingere ad un repertorio originale o non originale ormai vastissimo, ma ciò che lo rende irriducibilmente jazz è la consapevolezza di ri-creare l’opera, di ripetere il gesto compositivo nell’estemporaneità dell’esecuzione. In questo senso il jazzista è estraneo tanto al concetto rock di cover quanto al concetto classico di esecuzione. Potremmo dire che Steve Lacy suona cover di Monk? O che Brad Mehldau esegue i Radiohead?



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?


MN: A dire il vero il concetto di jazz si è talmente allargato che mi risulta difficile un parlare di musica che non sia un parlare di musica in senso esteso. Se penso al jazz strettamente come fenomeno storico ne vedo una certa fotografia. Se invece rifletto sul jazz come estetica – o come filosofia in senso lato – riconosco che lo spirito che permea questa musica abbia permesso a me come a moltissimi altri di comunicare, crescere e talvolta creare qualcosa di significativo attraverso l’incontro con persone lontanissime per provenienza geografica, età o estrazione. Il jazz ha il potere di avvicinare, mettere in comunicazione, relazionare: in questo mantiene la sua caratteristica di lingua prevalentemente “parlata”.



JC: Come vedi, in generale, il presente della musica jazz?


MN: Del presente della musica jazz ho impressioni contrastanti. Da un lato ritengo che l’istanza – più che legittima – dei conservatori americani di secolarizzare il jazz come prodotto storico corra il rischio di frenare la spinta alla ricerca propria di questa musica sin dalle sue origini. D’altro canto, penso che la globalizzazione abbia fatto del jazz un’estetica condivisa anche fuori dai confini nordamericani: onestamente seguo con più interesse gli sviluppi di questa musica nei Paesi Scandinavi o attorno al bacino del Mediterraneo piuttosto che i suoi epigoni diplomati dai conservatori degli USA.



JC: Cosa stai facendo ora a livello musicale?


MN: In questo preciso momento sto lavorando all’uscita di un album che conterrà gran parte del materiale extra-chitarristico che ho scritto in questi ultimi anni, principalmente per pianoforte, violino e violoncello. È un concept album che ha coinvolto musicisti di estrazione classica dell’orchestra del Teatro Regio di Torino, alcuni jazzisti e un discreto numero di collaboratori tra i musicisti immigrati in Italia dai quattro angoli del pianeta: un’opera globale prodotta però secondo il principio del “chilometro zero”.



JC: Quali sono i tuoi progetti musicali per il futuro?


MN: Tra i tanti progetti in corso d’opera ce ne è uno che ho particolarmente a cuore: la produzione di un album interamente dedicato alla musica dei Beatles. Da qualche anno propongo un recital per sola chitarra sul repertorio del quartetto di Liverpool, e mi sembra arrivato il momento di mettere un “punto e a capo” attraverso un album. Nei miei progetti ci sono una quindicina di brani, realizzati ciascuno con un musicista diverso con cui duettare. Un lavoro discografico sui Beatles prima dell’estinzione del supporto fisico della musica (LP o CD che sia) per me sarebbe come chiudere un cerchio.